Stefano Massini «È nato in bicicletta il libro sui Lehman»

Nella finale del Campiello il 9 settembre a Venezia lo scrittore che dirige il Piccolo Teatro di Milano 
Tocca a lui sfatare la maledizione del Campiello. E sì, perché Stefano Massini è entrato nella cinquina dei finalisti, a maggio, con il maggior numero di voti: otto. E dicono che chi conquista la Giuria dei letterati a Padova, poi non fa il bis con quella popolare a Venezia. Vero è, però, che il suo libro “Qualcosa sui Lehman” (Mondadori) potrebbe sfatare questa leggenda. Scritto in forma di ballata, racconta in maniera magistrale e godibilissima il divenire del capitalismo seguendo le tracce di una famiglia diventata un mito in America.


A Venezia, sabato 9 settembre al Teatro La Fenice, Massini sarà in finale insieme a Mauro Covacich con “La città interiore” (La nave di Teseo), Alessandra Sarchi con “La notte ha la mia voce” (Einaudi), Donatella Di Pietrantonio con “L’Arminuta” (Einaudi) e Laura Pugno con “La ragazza selvaggia” (Marsilio). A presentare la serata saranno Mia Ceran e Enrico Bertolino.


Salita alla ribalta mondiale con la bancarotta del 2008, la storia della Lehman Bank e dei Lehman Brothers diventa nel libro di Massini un entusiasmante viaggio nel tempo. Dove passano sotto gli occhi del lettore, in un testo fluviale che ha il ritmo dei versi, i tre fondatori dell’impero economico, i fratelli ebrei emigrati dalla Germania Henry, Emanuel e Mayer, e poi i figli, nipoti, pronipoti. Il continuo mutar forma del capitalismo, della società americana e del mondo, diventano un’epopea sospesa tra racconto orale, narrativa, poesia, cinema, fumetto, teatro.


«La letteratura non dovrebbe mai raccontare quello che il lettore vuole sentire – spiega Stefano Massini –. Per questo sono convinto che chi scrive ha il dovere di andare contro i luoghi comuni. Ho cominciato a pensare alla storia dei Lehman proprio perché in giro c’era, e c’è tuttora, un forte sentimento di antipatia, di sospetto nei confronti delle banche».


Ma perché proprio i Lehman?


«La loro storia mi ha incantato. Perché ho capito di poter raccontare la nascita e il divenire di un’istituzione bancaria come un’epopea. Seguendo le generazioni dei Lehman ho incontrato persone che tentano, sbagliano, si rialzano, hanno intuizioni, colpi di genio. E finiscono per cadere nel fatale errore di staccarsi progressivamente dal danaro che serve a comprare merce, e dare lavoro, per innamorarsi dell’idea del denaro che finanzia altro denaro».


Un’idea che porterà verso il baratro...


«La storia dei Lehman è il paradigma di una famiglia che, dopo aver creato un impero, si allontana progressivamente dalla realtà. E paga in maniera durissima questo suo inseguire teorie».


È nato prima il romanzo o la trilogia per il teatro?


«Prima ho scritto il romanzo. Allora, però, mi occupavo solo di teatro. E quel testo così lungo non andava bene. Così mi sono deciso a ridurlo, a cambiarlo nella “Lehman Trilogy” per il palcoscenico».


Una pièce di grande successo?


«In Italia la “Trilogy” è andata in scena con la regia del grande Luca Ronconi, con Fabrizio Gifuni, Massimo Popolizio e Massimo De Francovich. In Francia ha preso il Premio della critica come spettacolo dell’anno. Poi ci sono state versioni in Germania, una molto bella in Spagna. Adesso aspettiamo quella con la regia di Sam Mendes».


Quanto ha letto prima di scrivere?


«Documentarmi era fondamentale. Nel caso dei Lehman, sono stato fortunato perché in America parecchi libri raccontano la famiglia. Negli States sono un po’come gli Agnelli in Italia».


Lei ci capisce qualcosa di economia?


«Assolutamente no. Proprio lì ho dovuto fare lo sforzo più grande, studiando la storia dell’economia dall’800 a oggi. E di questo vado fiero. Perché, poi, tutte quelle informazioni le ho trasformate in un racconto familiare».


Non definiscono il suo libro romanzo. Perché?


«Sono felice che abbia creato imbarazzo a molte persone che dovevano recensirlo. A teatro mi dicevano la stessa cosa: ma che cos’è? E io: tante cose tutte assieme. Un saggio, una sceneggiatura, un testo teatrale, un romanzo picaresco e d’avventura. C’è perfino il fumetto. Credo che rispecchi il modo di vedere le cose d’oggi. Dal momento che viviamo galleggiando nei social network, usiamo forme di scrittura composite».


Succede anche nel cinema?


«Esemplare è il caso di “Fuocoammare” e “Sacro Gra”, due film-documentario che a Berlino e Venezia hanno vinto battendo opere di fiction. Del resto, anche il rap è pura metrica, ma nessuno si sognerebbe di dire che non è musica. Bob Dylan non ha vinto il Nobel per la letteratura?».


E allora come definirlo?


«Una sorta di epica della contemporaneità. Dove non mancano il divertimento, l’ironia, la riflessione, con gli eroi, le battaglie combattute nei consigli d’amministrazione, l’amore. C’è perfino King Kong, i quiz del sabato sera, il musical, la ribellione alle regole sociali».


Scriveva anche da ragazzo?


«Sono sempre stato un raccontatore di storie. Quando tornavo da scuola, se era successo qualcosa, lo infiorettavo, ingigantivo. Diventava un racconto epico. Devo dire che questo talento narrativo l’ho anche un po’pagato, perché spesso le persone non mi credevano più. Pensavano che fossero fantasie. E allora ho capito che dovevo iniziare a scrivere».


Più teatro o più letteratura?


«Amo avere un contatto con la realtà, con le persone. A teatro il pubblico reagisce subito: applaude, fischia. Un libro, invece, lo leggi per conto tuo e finisce che l’autore non sa che cosa pensi. Per fortuna esistono gli incontri con i lettori. E internet, dove spesso c’è chi lascia un commento».


Emozionato per la finale del Campiello?


«Trovo che sia già bellissimo entrare nella cinquina dei finalisti. A Venezia ci vado con grande tranquillità. “Qualcosa sui Lehman” ha venduto bene, è in classica da tempo. Se vinco sono felice, altrimenti lo sono lo stesso».


Com’è arrivato al teatro?


«Mi sono accorto, raccontando storie, che tendevo a recitarle. Ma non ero tagliato per fare l’attore. Così ho capito che il teatro poteva essere la strada giusta. E mi sono messo a scrivere testi per il palcoscenico, che non sono mai in linea con quello che il grande pubblico vorrebbe vedere. Preferisco le avventure difficili. Sempre con un pizzico di ironia».


Bello entrare al Piccolo Teatro di MIlano dopo Strehler, Ronconi?


«Ho iniziato nel 2000 facendo l’assistente alla regia di Ronconi. Un’esperienza importantissima. Però la più grande soddisfazione è che a volermi come direttore artistico del Piccolo è stato Sergio Escobar, direttore del Teatro ormai da dieci anni».


Dopo la scrittura, qual è la passione più grande?


«Sono uno che non riesce a stare fermo. Non posso scrivere seduto davanti al computer. Preferisco registrare le idee che mi vengono mentre faccio lunghi giri in bicicletta. Forse è per questo che “Qualcosa sui Lehman” è un testo veloce. In movimento».


E dove va a pedalare?


«Abito in campagna sulle colline toscane. Quindi posso scegliere tra i sentieri sterrati, usando una country bike, e i percorsi su strada, pedalando su una bici da corsa».


Il ciclismo è un amore segreto?


«Nel 2014 mi hanno chiamato da Dedica di Pordenone per una mise en espace di un testo di Tahar Ben Jelloun. L’albergo dove alloggiavo forniva ai clienti alcune bici. Quando ho trovato un paio d’ore libere mi sono spinto fin oltre Codroipo. Se mi togliessero le mie pedalate sarei finito».


Mai scritto di bici?


«Un racconto per la piccola casa editrice Il Dondolo su Alfonsina Strada. La prima donna a sfidare gli uomini al Giro d’Italia. Lo considero come una mia dichiarazione d’amore al ciclismo».


alemezlo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


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