Storia e fascino della Legione secondo Oliva

PORDENONE. C'è un mito forte che accompagna la storia della Légion Éntrangére, fatta di letteratura, cinema, poche e sfuggevoli testimonianze e di molti silenzi che ha alimentato l'immaginario e contribuito a creare un alone di mistero e, perché no, di fascino. Fascino per una storia di sconfitte nella gloria delle armi, per l'anonimato di uomini senza passato o dal passato da fare e volere dimenticare in fretta.
Gianni Oliva nel suo ultimo lavoro “Fra i dannati della terra. Storia della Legione straniera” (Mondadori) che viene presentato oggi, alle 10, all’Istituto Vendramini, affronta direttamente la questione. Va detto che non è una storia militare, e l'autore bene avverte di ciò, ma una storia di uomini e personaggi oggi dimenticati o per nulla noti. Uomini chiamati alla consegna del sacrificio e dell'obbedienza per quelle che spesso sono state guerre senza spiegazione.
La Legione straniera nacque nel 1831 su iniziativa del sovrano francese Carlo X, come un corpo con la licenza di uccidere e reprimere, andando ben al di là dei compiti assegnati alle forze regolari, ed impiegato immediatamente nella costruzione dell'impero coloniale. Una storia per certi versi circolare iniziata allora ad Algeri e qui conclusa con ben altri esiti nel 1962 con gli accordi di Évian e la fine di quella prima parte di storia. Poi è andata avanti ma sotto altra versione e con compiti diversi in numerosi teatri di guerra dal Ciad al Ruanda, dalla Cambogia alla ex Jugoslavia, all'Afghanistan. Centinaia di migliaia di uomini provenienti da tutto il mondo sono stati legionari, tra i quali ben sessantamila italiani in epoche e tempi diversi. Cinque anni di ferma minima, accompagnati da un addestramento durissimo e da una disciplina proverbiale, garantivano l'ottenimento della cittadinanza francese e l'immunità per eventuali delitti compiuti in passato. Oggi i legionari sono 7700 soldati altamente specializzati, organizzati in undici reggimenti, spesso impegnati in missioni di peace keeping.
Legionari però, non mercenari. Gianni Oliva rileva il carattere volontaristico delle origini, caratterizzato da uomini reduci dalle esperienze rivoluzionarie e bonapartiste, mossi da ideali romantici di partecipazione alle lotte di indipendenza, declinato nel combattentismo dalla guerra di Crimea in poi, a Magenta nel 1859 e quindi in Messico nel 1863 dove il massacro di Camerone contribuirà alla formazione del mito leggendario del sacrificio "fino all'ultimo uomo". Molti sono i nomi illustri di politici, intellettuali, artisti, militari che ne hanno fatto parte, dall'ex ministro fascista Bottai, che combatté in Francia contro i nazisti, al futuro re Pietro I di Jugoslavia, passando per il musicista americano Cole Porter. Un accenno però merita alle vicende dei volontari italiani, per lo più emigranti, che aderirono in massa all'appello di guerra nel '14. Non potendoli accogliere nell'esercito regolare e per non creare imbarazzo al governo Salandra ancora neutrale finirono nella Legione. A costoro si aggiunsero quelli organizzati, si fa per dire, da Peppino e Ricciotti jr. Garibaldi, nipoti dell'Eroe, che ben diversamente avrebbe inteso, nella legione italiana garibaldina, in questo caso con diversi volontari provenienti dall'Italia e pure alcuni irredenti, come il triestino Gabriele Foschiatti, giunti dal Litorale austriaco ma già reduci da brevi esperienze di lotta in Albania. Convinti di poter rinverdire i fasti risorgimentali formarono una brigata con duemila uomini in camicia rossa e Peppino Garibaldi la offrì al governo francese prima e poi a quello inglese, con l'intenzione di sbarcare in Dalmazia, finirono invece nel quarto reggimento di marcia della Legione formata a Nimes. Uniforme della Legione sopra la camicia rossa, comandi italiani subordinati a quelli francesi e soprattutto scarso riguardo per la loro causa. Finirono nelle Argonne a saggiare la buona mira dei fanti tedeschi nelle battaglie di Abri de l'Etoile e di Ravin des Mourissons lasciando sul campo 93 morti, 337 feriti e 136 dispersi, tra costoro pure due nipoti di Garibaldi. Una sola concessione fu loro data: la bandiera di guerra, il tricolore italiano senza lo stemma Savoia. I reduci ebbero l'onore di sfilare con quella bandiera nei Campi Elisi e alla delegazione ufficiale italiana quella bandiera non fu gradita. Però, almeno il retaggio garibaldino era stato salvaguardato.
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