Telmo Pievani e la “finitudine” «Non nichilismo, ma compassione»

Tutto inizia in una stanza di ospedale, il 10 gennaio 1960, quando il biologo dell’Istituto Pasteur, Jacques Monod, fa visita all’amico scrittore Albert Camus, che qualche giorno prima è rimasto ferito in un incidente stradale.
La storia ci dice che in realtà l’autore di “La peste” in quell’incidente morì, ma nel nuovo libro di Telmo Pievani, «Finitudine» (Raffaello Cortina Editore, pagg. 280, euro 16), è invece fasciato in testa, immobile ma lucido, e pronto a confrontarsi con l’amico.
In una pregevole filigrana di fatti e finzioni, i due grandi intellettuali del Novecento, premio Nobel per la letteratura uno (nel 1957) e premio Nobel per la fisiologia e la medicina l’altro (nel 1965), sono alle prese con la correzione di bozze del libro scritto a quattro mani, sulla finitudine appunto. Un libro immaginario, immaginato e scritto da Telmo Pievani, docente di Filosofia delle scienze biologiche all’Università di Padova, che oggi pomeriggio, alle 18, sarà ospite della rassegna “Mondofuturo” sulla pagina Facebook del Festival della Fantascienza di Trieste (www.facebook.com/TriesteScienceFiction).
Ancora una volta, Pievani ci coinvolge con la sua prosa brillante e, dopo tanti saggi divulgativi (ricordiamo anche i libri per ragazzi e ragazze pubblicati dalla triestina Editoriale Scienza, tra cui l’avvincente «Sulle tracce degli antenati») ci propone un romanzo filosofico, su fragilità e libertà.
Il libro è una sorta di esperimento mentale della profonda amicizia tra i due uomini liberi, due Nobel ribelli, nemici di ogni oppressione, entrambi nella Resistenza durante il conflitto mondiale. È la messa in scena di un fervido e, a volte, acceso confronto laico su un grande tema filosofico: il senso della fine. Nostra, e di tutte le cose.
Ogni spettacolo, del resto, ha un inizio e una fine. E anche la Terra condivide questo destino. «L’avvenire è dunque un imbroglio».
Il libro è nato durante il lockdown come se fosse stato scritto nel 1960, quando ancora non eravamo andati sulla Luna, si cominciava appena a parlare di Intelligenza artificiale, il cambiamento climatico non era al centro del dibattito pubblico e l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva appena lanciato la campagna mondiale per l’eradicazione del vaiolo. Un mondo completamente diverso da quello di oggi, se non fosse per la contingente vulnerabilità.
«La grande depressione, le due carneficine mondiali, il degrado ambientale, le armi di distruzione di massa, le epidemie…»: tutto svelava infatti la nostra vulnerabilità, se non proprio della nostra specie, del mondo fino ad allora conosciuto.
Monod e Camus concordano nel dire che «a salvarci dalla finitudine non può essere la tecnocrazia, nè il progresso, nè il Dna».
La finitudine però non può essere un alibi. E anche se siamo figli del caso e della necessità, dove «la necessità è la selezione naturale che si ciba del caso conservato nel Dna», siamo comunque responsabili delle nostre azioni. E liberi. Liberi di darci (anche) delle norme e di trovare valori, primo fra tutti il diritto inviolabile alla vita di ogni essere umano. Accettare la nostra finitezza, dunque, non implica la vittoria del nichilismo e del pessimismo. Perchè proprio la consapevolezza della finitudine ci rende umani. E solidali. Ci dona la compassione per tutti gli altri che, come noi, sono mortali.
La vita, insomma, proprio perché finita, ha un valore assoluto e proprio perché è l’unica possibilità che abbiamo, abbiamo il dovere di lottare affinché tutti godano di una vita piena. —
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