Tomas Milian «All’Actor Studio accanto a Marilyn»

In arrivo in Italia l’attore cubano racconta la sua vita al limite, tra successi e cadute
Di Paolo Lughi

di Paolo Lughi

«Avevo ventun anni quando nel 1954, a L’Avana, andai al cinema a vedere ‘La valle dell’Eden’. Cominciai a leggere articoli su James Dean, scoprii che verso i vent’anni aveva lasciato Fairmont, nell’Indiana, alla volta di New York, per entrare all’Actors Studio. Ingenuamente mi domandai: ‘Perché io no?’». Con queste parole, più o meno come i personaggi cinefili dei romanzi di Manuel Puig, ricorda il suo avvicinamento al cinema il cubano Tomas Milian, uno degli attori più popolari degli schermi italiani dagli anni ’60 agli ’80.

Milian ora si racconta (e si mette completamente a nudo) in un’autobiografia appena uscita nelle librerie dal titolo “Monnezza amore mio” (Rizzoli, pag. 288, euro 18,50), scritta con il critico italiano Manlio Gomarasca, caporedattore della rivista “Nocturno”. E proprio come i personaggi latini dei romanzi di Puig, perdutamente innamorati dei miti hollywoodiani, la realtà desiderata dell’eterno migrante Milian si svolge sempre “altrove”. Quand’è a Cuba sogna New York, quando calca i teatri Off-Broadway sogna il cinema, quando diventa una star in Italia sogna “il suo film americano”, quando finalmente lavora negli States (dagli anni ’90) lo insegue il suo passato di divo a Cinecittà.

Una carriera senza dubbio eccezionale quella di Milian, figura complessa ed estrema segnata dai ricordi d’infanzia (“La monnezza è uno dei ricordi più vividi che conservo di Cuba”, sono le prime parole del libro) e dal suicidio del padre, ufficiale dell’esercito che si oppose al dittatore Batista, quando Tomas aveva 12 anni. Sono oltre 120 i suoi film girati fra Europa e America, fra cinema d’autore e di genere, con alti e bassi artistici e umani, svolte e rinascite, accanto ad alcune delle più grandi icone della storia dello spettacolo.

Su tutto però si staglia la straordinaria maschera di “Er Monnezza”, con cui Milian ha dominato la scena comica italiana per un decennio a partire da “Il trucido e lo sbirro” (1976), e che prosegue nel culto (con i dvd) fino a oggi. Quella di Monnezza era l’ultima epoca d’oro del cinema di genere nostrano (poi ucciso dalle tv commerciali), quello che la rivista “Nocturno” di Gomarasca ha riportato in auge dieci anni fa promuovendo retrospettive nei festival e nelle tv. Proprio nel 2004 questo impetuoso revival favorì anche un “Ritorno del Monnezza” con Claudio Amendola, il cui padre Ferruccio doppiava Milian negli “stracult” originali.

Nel rievocare nel libro esperienze e incontri sulle due sponde dell’Atlantico, Milian ci regala un emozionante “manuale di sopravvivenza” per l’attor giovane che cerca la fortuna con disperazione e tenacia, a lungo senza un soldo in tasca, seguendo la divorante passione della recitazione.

Lasciata Cuba nel 1956 a ventitré anni, da Miami a New York patisce la fame facendo il parcheggiatore, l’ascensorista, il marinaio, il postino. Si paga a malapena le scuole serali di inglese e teatro, ma riesce nel 1957 a essere ammesso all’Actors Studio. Lì seguirà i corsi di Lee Strasberg ed Elia Kazan, mentre nella sedia accanto alla sua, «sempre la stessa, si sedeva spesso una donna. Era Marilyn Monroe, bellissima spettinata, senza trucco, e avvolta nella sua pelliccia nera». Sicuramente bellissimo anche lui, Milian piace alle donne e agli uomini, non preoccupandosi di dare scandalo. In un’intervista al “New York Times” gli chiedono “What are you?” e lui, invece di dire «cubano», risponde: «Bisessuale!».

La svolta per Milian è uno spettacolo Off-Broadway dove lo notano Gian Carlo Menotti e Jean Cocteau. Menotti lo fa debuttare nel 1959 al Festival di Spoleto in un testo di Cocteau diretto dall’esordiente Zeffirelli. Il suo monologo fa impressione e Milian non lascerà più l’Italia per 35 anni. Per lui arrivano subito ruoli di fianco per film di registi blasonati come Bolognini (“La notte brava”), Maselli (“I delfini”), Pasolini (“Ro.Go.Pa.G.”) e Luchino Visconti, che gli offre la parte del Conte Ottavio nell’episodio “Il lavoro” in “Boccaccio ‘70” (1962), che Milian interpreta con memorabile sensualità ed eleganza.

Del resto qui lo aiutava la sua origine borghese. Nei salotti, ricorda, «ero sempre uno che sapeva cosa fare e cosa non fare”, e aggiunge: “Devo confessare che ho sempre avuto un debole per l’aristocrazia”.

Viene anche preso sotto contratto da Cristaldi, ma a un certo punto la sua carriera si blocca: “Non avevo più soldi», scrive. Si reinventa attore poliedrico, esaspera i toni, lanciandosi negli “spaghetti western” allora in voga. Nel 1966 comincia così il Tomas Milian “messicano” per alcuni dei migliori western all’italiana del periodo “rivoluzionario”: “Tepepa” e “Vamos a matar compañeros”, fino allo stranissimo zombi-western “Se sei vivo spara” di Giulio Questi, adorato da Joe Dante. L’italo-cubano Milian è perfetto in questi ruoli di peone incavolato e poi capo rivolta, e diventa in breve campione di incassi.

Per “Tepepa” impone Orson Welles al suo fianco per la parte del cattivissimo colonnello Carrasco. Dennis Hopper lo chiama per “The Last Movie” (dove recita ubriaco) e Garcia Marquez lo contatta per la cine-versione di “Cent’anni di solitudine”.

Poi, mischiando il western all’italiana con la sua deriva parodistica (“Provvidenza” nel ’72) e col poliziesco violento (“Squadra volante” nel ’74), arriva ai personaggi più squisitamente comici di Monnezza e del maresciallo Nico Giraldi (nato nel ’76 con “Squadra antiscippo”). Accanto al braccio destro Bombolo ne esce un filone di grande successo fino a “Delitto al ristorante cinese”. Una bomba di volgarità coatta che faceva venir giù i cinema, anche se Milian, che scriveva da sé le battute di Monnezza, precisa: «Ho cercato di dargli una coscienza sociale, quella che ho assimilato frequentando i sottoproletari in America».

Alla metà degli ’80 lo stato di grazia si esaurisce e Milian lotta per uscire da una spirale di alcol, cocaina e notti brave. Va in India e quindi ricomincia una nuova carriera in America, anche gloriosa, come caratterista (“Havana”, “Jfk”, “Amistad”).

Nel finale del libro Milian sottolinea fiero che il critico Morando Morandini (che non sopportava Monnezza) ha confessato di non averlo riconosciuto nella formidabile parte del generale Salazar in “Traffic” (2000), scoprendolo ammiratissimo solo dai titoli di coda. L’alter-ego Monnezza, con cui Milian qui intreccia per diverse pagine un divertente dialogo immaginario, avrebbe commentato: “A Tomasse, anvedi che forza!”.

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