Torna “La polvere del mondo”, l’avventura di Nicolas Bouvier alla ricerca della felicità

la recensione
Federica Manzon
Uno dei più grandi libri di viaggio di sempre, lo definisce Paolo Rumiz nella sua introduzione che non ha caso si intitola “Felicità dell’andare”. Perché “La polvere del mondo” di Nicolas Bouvier riportato in questi giorni in libreria da Feltrinelli (pagg. 426, euro 20), è un libro dove ogni pagina brilla di una benedetta felicità. Felicità dell’andare, ma anche felicità di una scrittura che ha l’incanto dei migliori narratori di viaggio: Chatwin, Kapuscinski, Osborne. Una scrittura che dà corpo alla musica che si alza nei balli campagnoli ai piedi dei pioppi, coglie il sorriso curioso di un cantoniere in babbucce e lo sguardo assonnato di un traghettatore svegliato all’improvviso dal suono di un clacson – e ci restituisce un modo straniero sempre sognato come prossimo.
È il racconto del viaggio che, negli anni ’50, Bouvier fece con l’amico pittore Thierry Vernet dai Balcani all’India. A bordo di una Topolino che si guastava continuamente. Oggi che molte di quelle frontiere sono diventate difficili, invalicabili o ostili, questo libro ci lascia addosso una nostalgia tormentosa per qualcosa che abbiamo perduto: la possibilità di un’intima condivisione con popoli, con culture che restano intraducibili e non si piegano alla tensione globale. Questo libro è in questo senso anche una riflessione sul tempo e sulla libertà, sulla capacità dell’uomo di abbandonare l’ossessione governatrice, lasciando che la nostra identità si smarrisca: per fare di noi non un monolite monoculturale, ma piuttosto una roccia sedimentaria.
Il viaggio inizia a Zagabria. Fa tappa a Belgrado, raccontata con la stessa frugale vividezza del miglior Andrić: i bagni nella Sava, le donne con scarpe monoprezzo massicce come protesi, le bottiglie di grappa alle prugne per rimediare allo smarrimento negli occhi dello straniero. I serbi, dice Bouvier, non smettono di ripetere che la Francia è il cervello d’Europa, ma “i Balcani ne sono il cuore, di cui mai abbastanza ci si servirà”. E noi ci troviamo a riflettere sulla consistenza della nostra Europa politica, che ha tagliato fuori dai suoi confini quell’Oriente mediterraneo cui sentiamo di appartenere.
Il viaggio avanza, con una fisarmonica e un registratore come passe-partout, perché la musica accompagna il banchetto, festa gioiosa che ha valore di esorcismo, e accomuna le malinconie dell’animo di tzigani, armeni, persiani.
Dal blu notte balcanico, si va verso il blu marino della Grecia, ma è nella vecchia Bisanzio che l’azzurro trova il suo compimento. Istanbul è “una noce dura da schiacciare” avverte Madame Wanda. E infatti in città i due non riusciranno a guadagnare nulla per vivere. Così di nuovo in marcia, attraverso luoghi incantati e di paura. Perché a volte si è colti da un inspiegabile timore e allora si rinuncia a entrare in quella strada, in quella moschea, o a fare quella foto, per poi maledirsi il giorno dopo, ma a torto. Gli avvertimenti dell’istinto sono il bagaglio del viaggiatore.
La vita nomade è una sorpresa che bisogna assecondare: può capitare di attraversa l’Anatolia in volata, di arrivare con il buio in Azerbaigian, e che durante la notte cada così tanta neve da bloccare le strade. Si resta allora per sei mesi a Tabriz. In una stradina del quartiere armeno che fa da frontiera con la “parte cattiva” abitata dai turchi, da cui a volte filtra il perfido odore dell’oppio – odore di cioccolato bruciato, di guasto elettrico, di disperazione. Tabriz è l’ultimo bastione dell’Asia Centrale. “L’Asia Centrale, questa cosa di cui, dopo la caduta di Bisanzio, gli storici europei non hanno compreso più nulla”.
Qui Bouvier tocca con mano la radice di un fondamentalismo non ancora arrivato in Occidente: il fanatismo come ultima rivolta dei poveri, la sola che non si osa rifiutare loro perché li fa sbraitare la domenica ma piegarsi sotto al basto durante la settimana. Ma conosce anche il fallimento delle buone intenzioni americane, che pensano di esportare la propria ricetta di felicità senza adattarla al contesto, un contesto che nel caso dell’Iran comprendevano anche allora assai male.
Con la primavera si raggiunge Teheran, dove il blu persiano rende leggero il cuore. E poi avanti, con una Topolino sempre più fuori uso, verso il deserto del Lut, dove i persiani collocano una delle dimore del Diavolo e dove ogni anno una dozzina di autisti ci lascia la pelle. Verso est, l’incontro con Kabul è struggente: la cinta di pioppi, le montagne viola fumiganti di un sottile strato di neve e gli aquiloni che si librano nel cielo autunnale sopra il bazar. Pare di essere arrivati in capo al mondo e invece se ne ha appena raggiunto il centro. Kabul che per secoli ha funzionato da setaccio tra le culture dell’India, dell’Iran ellenizzato e della Cina. Una Kabul di cui proviamo una straziante nostalgia tutti noi che non la potremo più conoscere così.
Il viaggio finisce sulle montagne afgane, davanti allo spettacolo del cielo chiaro di dicembre, con il crepitio del narghilè e gli spiccioli che tintinnano in tasca. Si ha la consapevolezza che, nonostante tutti gli ostacoli, si è arrivati fin lì in tempo per recitare la propria parte. E a noi resta la sensazione che il senso del viaggio non sia altro che questo: il disfarci e rifarci mentre lo facciamo. —
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