Trieste potrebbe diventare crocevia della viandanza per sognatori in cammino

di Cristina Favento
Luigi Nacci, autore triestino, con il suo “Alzati e cammina. Sulla strada della viandanza” (Ediciclo Editore) si è aggiudicato il Premio Albatros di Palestrina. Dedicato alla letteratura di viaggio, il riconoscimento gli è stato assegnato qualche giorno fa nella suggestiva cornice del tempio della dea Fortuna Primigenia, antica meta di pellegrinaggio e luogo d'incontro fra culture e popoli diversi. La manifestazione, organizzata dal 1998 dal Comune di Palestrina, in collaborazione con l’associazione culturale “Lupus in Fabula”, mira a valorizzare e diffondere opere letterarie e giornalistiche. In finale c'erano Paolo Ciampi e Giuliano Malatesta, ai quali Nacci ha dedicato il premio ricevuto.
Si è detto contento, l'autore, «perché il Premio Albatros ha una storia ormai decennale, una giuria autorevole e qualificata e in passato sono stati premiati autori che apprezzo, come Fosco Maraini, Paolo Rumiz, Tiziano Terzani, Giuseppe Cederna, Filippo Tuena, Emilio Rigatti, Antonio Moresco... Ma in cammino non esiste l’agonismo. Restando in cammino riesco a ricordare molte di quelle creature che sono state travolte, che non ce l’hanno fatta per una ragione o per l’altra, che avrebbero meritato più fortuna in questa vita. Stanno nel mio zaino, insieme alle domande vecchie e a quelle che ancora non conosco. Né vincitori, né vinti».
Lei si occupa di viandanza, cultura o cultura della viandanza?
«La viandanza ingloba tutto: poesia, politica, spiritualità, utopia, consapevolezza, responsabilità. Sulla strada della viandanza c’è tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che possiamo sperare. Il camminare non è che un aspetto, e nemmeno maggioritario. Facciamo viandanza quando apriamo la porta di casa agli estranei, quando scriviamo una parola esatta, quando facciamo a pezzi il nostro biglietto da visita, quando lavoriamo con coscienza, senza sfruttare, senza farci sfruttare, quando pensiamo a un “noi” fatto di differenze, di divergenze, e nonostante ciò un "noi" che resta tale, che non si sfalda».
Recentemente ha lasciato l'incarico di direttore artistico del Festival della Viandanza toscano: perché?
«Lasciare fa bene. Tutti noi dovremmo cercare di lasciare il più possibile, prima di tutto ciò che ci sta più a cuore. “Viandanza” è una parola bellissima. Quando l’ho pensata immaginavo la via che danza, la danza sulla via, i viandanti in festa… ora si vuole fare altro, qualcosa di più vicino al turismo. Non ho niente contro il turismo, però la viandanza è un’altra cosa. Ha a che fare con le nostre speranze, con il cambiamento, con il nucleo pulsante delle nostre vite».
Che cosa c'è di diverso oggi nel panorama "pellegrino"?
«Oggi c’è il boom del cammino. Questo è un bene da una parte, un male dall’altra. Pellegrino non è solo chi si mette in viaggio per fede, ma anche chi lascia la sua casa, va per i campi, si fa clandestino e non può essere sempre connesso, non può camminare facendosi mille selfie al giorno. Oggi molti viaggiano per apparire, oppure restando in superficie, o fuggono dal proprio quotidiano. Mi piacerebbe . un po’ più di contegno, di riflessione, di approfondimento. Mettersi in cammino per mettersi in discussione, per cercare di abbandonare il proprio “io”, o almeno per tentare di oscurarlo».
E un Festival della Viandanza triestino, addirittura transfrontaliero, sarebbe possibile?
«Secondo me non è più tempo dell'ennesimo festival. Di feste sì, ma soprattutto nei giorni feriali. Dobbiamo fare qualcosa che non c'è ancora. Quando a Trieste si è fatto il porto, la città non c’era, era un borgo arroccato a un castello. Dobbiamo essere di nuovo dei visionari. Siamo stati una città ricca perché siamo stati accoglienti e sognatori, sognatori diurni. Siamo un crocevia di sentieri, di strade, di storie, di popoli, di lingue, di culture. Noi siamo già la viandanza. Dobbiamo solo ricordare, e poi fare un salto in avanti».
Come si potrebbe immaginare, concretamente?
«Come una festa che duri settimane, da fare nelle case delle persone, a partire da quelle più sole. E poi negli edifici abbandonati, nei vicoli, nei giardini, nelle piazze, nelle zone centrali e periferiche, sui sentieri del Carso, nelle grotte, nelle doline, anche nelle discariche. Una festa che prenda tutti gli spazi, privati e pubblici, e lo faccia nei giorni feriali e festivi, a cui partecipino scrittori, pensatori, viaggiatori, artisti, architetti, visionari, poeti, musicisti, persone comuni, persone che camminano e che non possono camminare. Tutti sullo stesso livello, senza piedistalli. Una festa in cui, prima di tutto, si stia insieme, ci si ascolti».
Nel suo blog (nacciluigi.wordpress.com) lei sottolinea l'importanza delle parole che usiamo. Quali sono quelle necessarie a sostenere un'idea di viandanza in questo momento?
«Accoglienza, come già detto. Solidarietà. Condivisione. Umiltà. Rischio. Amicizia. Semplicità. Lentezza. Strada. Tutto deve ripartire dalla e sulla strada».
Quali i temi da affrontare qui sul territorio?
«Le pedonalizzazioni, ad esempio. C'è chi si lamenta che venga chiusa al traffico una via. Beh, mi piacerebbe ci fosse molta più gente che protesta per la ragione opposta. Il centro di Trieste è piccolo, potremmo viverlo totalmente a piedi, in bicicletta, con mezzi pubblici non inquinanti, con altri mezzi che ancora non si sono inventati. Ovviamente senza estremismi e rispettando le esigenze dei più deboli, cioè gli anziani, i disabili, i bambini. Ma tutti gli altri, gli abili, no: devono, dobbiamo cambiare le nostre abitudini. Se c'è qualcosa che a mio parere dovremmo chiudere, quella è la Ferriera. Sarebbe il primo atto d'amore per la viandanza».
Si aspettava il successo del suo libro "Alzati e cammina"?
«Non mi aspettavo nulla. Ho fatto quel libro dopo averlo covato per sette anni. È stato il risultato di una necessità primaria. Sono contento che a un po’ di gente sia piaciuto, ma se così non fosse stato non sarebbe cambiato niente. Vale lo stesso per il prossimo, che uscirà nel 2016 e tratterà ancora la viandianza. Credo che si debba scrivere solo e solo quando è necessario. In questo senso, la poesia mi ha insegnato molto. La poesia e il cammino insegnano a togliere, il più possibile, a far rimanere soltanto ciò che davvero conta».
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