Tuzzi a Grado Giallo misteri balcanici

di MARY B. TOLUSSO
Di nuovo in primo piano il detective montenegrino Neron Vukcic di Adriano Bon alias Hans Tuzzi, oggi nella penultima giornata di Grado Giallo (Cinema Cristallo, alle 16) con "Il sesto faraone" (Bollati Boringhieri), secondo capitolo della trilogia concepita dall'autore dove a parlare sono gli anni tra le due guerre mondiali, un varco di tempo che, con una scrittura classica che non disprezza il pop, ha qualcosa da dire anche alla contemporaneità: «Gli anni fra le due guerre parlano anche del nostro presente - osserva Tuzzi -. Affascinato da quel periodo storico, ho concepito un ciclo di tre romanzi che dal giugno 1914 giungessero sino alla piena "età del jazz", quando nessuno poteva credere che di lì a poco la crisi economica del 1929 avrebbe aperto la via ai peggiori incubi e agli eventi più atroci di quello che gli storici hanno chiamato il Secolo breve. La Grande guerra fu una "inutile strage" che segnò la fine dell'Ottocento e "il suicidio dell'Europa civile". Fu anche la dimostrazione di come il volere umano poco o nulla possa di fronte ai meccanismi impersonali della Storia. E i Balcani, dove convergevano gli interessi di tre imperi multinazionali e multireligiosi, ne furono il crocevia».
Ritorna quindi il detective balcanico...
«Il romanzo si muove tra storia e fantasia, ecco perché Neron Vukcic è, come Nero Wolfe, montenegrino. Potrebbe non avere alcun rapporto biografico con il personaggio di Stout. Mi divertiva però suggerire al lettore questa possibilità. Non si trattava di prendere di peso un personaggio famoso e portarlo in uno scenario a lui estraneo: volevo che Vukcic (in slavo, figlio di lupo) fosse un personaggio vivo, autonomo, a tutto tondo, ma che in lui il lettore potesse indovinare, fra i tanti possibili sviluppi, quello del suo celebre modello».
Questa volta Vukcic da Sarajevo sbarca ad Alessandria, in un clima di popoli dominanti e dominati. Cosa ci restituisce della realtà attuale "Il sesto faraone"?
«Anche se li unisce il personaggio principale, Neron Vukcic, ogni romanzo è in sé concluso: "Il sesto Faraone", secondo episodio del trittico, ambientato ad Alessandria d'Egitto nel 1921, propone al lettore molti elementi tipici dei "mysteries" di quel periodo. Ma parla anche dei primi scricchiolii del colonialismo in un mondo che contava men di quaranta nazioni sovrane contro le duecento di oggi: il nazionalismo vittorioso in Europa contagiava ormai gli altri popoli».
C'è anche una tonalità ironica, ma sempre colta. Non trova che la leggerezza sia più profonda dei miti dell'interiorità?
«Sì. Noi nipotini di Freud, inoltre, abbiamo il vantaggio di poter riassumere in un gesto, in un tic o in un silenzio quello che a un narratore ottocentesco avrebbe preso una pagina di prosa introspettiva. La leggerezza va conquistata. Come disse Cocteau, ci vogliono molti anni per diventare giovani».
Rispetto a un tempo i giallisti sembrano triplicarsi. Non è pericoloso sul fronte qualità e appiattimento?
«Sì, certo. Oggi, poi, chi pubblica ha paura di esigere dal lettore qualsiasi sforzo: il grave è che la paura dell'editore è ancor più f. orte di quella dell'autore, che ne viene condizionato a priori. Questo è pericoloso in quanto può generare, nello scrittore dotato, una latente ostilità verso il lettore».
Come si realizza la ricerca per i suoi libri?
«Con molta pazienza, ci sono sempre realtà incognite da esplorare. Ma è un momento di grande divertimento e sotto svariati punti di vista. Per i luoghi, sia la Milano degli anni Ottanta sia le esotiche terre corse da Vukcic vengono filtrate dalla memoria, così da conferire loro quel tanto di vagamente irreale ed estraneo connaturato al passato».
Si è mai chiesto perché è attirato dall'enigma, dal mistero?
«A ben vedere, tutto è un mistero, e noi viviamo immersi nel grande mistero del Tutto».
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