Un armadio spiritato mi ha fatto scrivere di mia madre e di me

La scrittrice nata a Orvieto, ma che vive a Genova parla domani a Trieste di “Costellazione familiare”
Di Alessandro Mezzena Lona

di Alessandro Mezzena Lona

Non può sbagliare un libro, Rosa Matteucci. Da quando è uscito “Lourdes”, il suo romanzo di debutto, le hanno caricato sulle spalle il peso di una responsabilità immensa. E sì, perché Carlo Fruttero, critico e autore della mitica “Donna della domenica” con Franco Lucentini, ha disegnato per la scrittrice di Grosseto un albero genealogico letterario di tutto rispetto. Che annovera nomi colossali come Samuel Beckett, Louis Ferdinand Céline, Thomas Bernhard.

Per fortuna che lei, Rosa Matteucci, sa scherzarci su: «Quando Fruttero ha scritto quelle cose, io Beckett non l’avevo letto. Però aveva ragione citando nomi tanto importanti, perché la mia voglia di scrivere è nata da una passione per la grande letteratura». Lo si vede dalla ricchezza della sua lingua, che riporta alla memoria un maestro di stile del ’900 italiano: Tommaso Landolfi. Un impasto di parole colte, di termini dimenticati, di modi di dire gergali e regionali efficacissimi.

E, in effetti, dopo “Lourdes” Rosa Matteucci non ha sbagliato un libro. E non sorprende scoprire adesso che il suo nuovo romanzo, pubblicato da Adelphi dopo parecchi anni in cui la scrittrice si è concessa una libera uscita editoriale, è davvero uno dei migliori. Non solo di questo piccolo scorcio di 2016, ma degli ultimi anni.

Qualche premio importante se ne accorgerà?

“Costellazione familiare” (Adelphi, pagg. 167, euro 16) sa raccontare il calvario di una figlia che ama una madre bella, altera e impossibile. Che le impone i feroci digiuni, l’assenza totale di carezze, la preferenza netta per i cani, l’annoiata, costante denigrazione del padre. E quando la dispotica Pupa si ammala, e poi muore, il mondo della protagonista rischia di finire prigioniero del caos. Perché in quel teatrino degli affetti, sotto la maschera della tragedia si nasconde uno sberleffo. E le lacrime possono virare, grazie a una scrittura terragna e intrisa di passione, verso un amaro umorismo.

Per parlare di “Costellazione familiare”, domani alle 18 Rosa Matteucci sarà ospite della Libreria Lovat, in viale XX Settembre a Trieste.

«Ci ho messo tre anni per scrivere il libro - spiega Rosa Matteucci -. Il problema è che sono partita dalla storia di un cane. Non riuscivo a perdonarmi di averlo dato ad altre persone. Non potevo accettare che fosse morto in esilio dalla sua casa. Pensavo di togliermi questo tormento consegnandolo alla letteratura, come ho fatto per papà nel romanzo “Tutta mio padre”».

E invece?

«Man mano che scrivo, i personaggi, inventati o reali che siano, reclamano più visibilità. Pretendono di condurre loro la storia. E così è saltata fuori mia madre, con prepotenza. Ho cercato di oppormi a lei, ma il romanzo ha deragliato. È cambiato una prima volta, poi un’altra ancora».

Così ha deciso di fermarsi?

«L’anno scorso, quando era pronto per uscire, ho bloccato tutto. Volevo rimettere le mani sul romanzo, senza rendermi conto che mi aspettava un’altra giravolta. Infatti, sono entrata in scena io come personaggio, accanto al cane e a mia madre. Evidente che questo desiderio di mettermi in primo piano lo covavo chissà da quanto tempo, in maniera incoscia».

Ha scritto come se fosse l’analista di se stessa?

«La scrittura è sempre stata, per me, terapeutica. Una sorta di autoanalisi. Anche se in un romanzo c’è sempre l’invenzione».

Dopo “Lourdes”, “Libera la Karenina che è in te”, “Cuore di mamma”, ha detto addio all’Adelphi. Come è riuscita a tornare?

«È stato un ritorno avventuroso e simbolico. Nel 2009 avevo rifiutato la proposta di continuare a pubblicare con Adelphi perché volevo tentare l’avventura dello Strega con “Tutto mio padre”. E Bompiani mi aveva promesso il suo appoggio al Premio. Poi, il gruppo Rcs ha cambiato idea: la candidata di bandiera è diventata Silvia Avallone, che si è classificata seconda con “Acciaio”».

Ha mollato tutto?

«No, ho voluto andare fino in fondo da sola. E sono riuscita a raccogliere, comunque, 28 voti. Non pochi, se consideriamo le pressioni e i condizionamenti fortissimi che subiscono i giurati dello Strega».

Si è promossa da sola?

«Dovendo fare l’ufficio stampa di me stessa, sono riuscita ad avere la lista delle persone che votano i finalisti al Premio. Un elenco difeso con segretezza carbonara. Anche se si sa benissimo che le pressioni arrivano, eccome se arrivano. Ho cominciato a telefonare in giro, con grande imbarazzo. Mi rispondevano badanti rumene. E io mi chiedevo: ma li leggono, poi, i libri?».

Non aveva speranze che Roberto Calasso la riprendesse in considerazione...

«Ho un debito enorme con loro: mi hanno fatto debuttare, crescere. Pensavo che, per me, le porte dell’Adelphi non si sarebbero più riaperte. Poi, tre anni fa, il mio fidanzato giornalista, che è anche un sensitivo, mi ha detto: “Ascoltami, scrivi una lettera a Calasso”. Senza grandi speranze, quella lettera l’ho scritta e spedita. E il bello è che Roberto Calasso, Ena Marchi mi hanno riaccolta, invitata a Milano, con grande affetto».

Grande lettrice, poi scrittrice...

«Amo tutti i libri, da quand’ero ragazzina. Quelli pubblicati da Adelphi in modo particolare. Ai tempi del liceo provavo il desiderio di comprarli tutti, ma costavano tanto. Non avevo i soldi. Così, il primo l’ho rubato. Ricordo ancora: era “Brecce” di Henri Michaux, il grande scrittore e pittore belga morto a Parigi nel 1984. Un volume grosso, pieno di aforismi. Pensieri brevi che non riempivano tutta la pagina. Ci sono rimasta un po’ male».

E il suo debutto?

«Del tutto casuale. Dopo il pellegrinaggio a Lourdes ho mandato all’Adelphi il mio romanzo scritto a macchina con una Lettera 32. Il manoscritto era un po’ stropicciato, con qualche macchia di caffè. È piaciuto, anche se mi hanno chiesto: non hai un computer? Sono andata a Milano qualche mese dopo. Venivo dalla campagna, ero imbarazzata.

Com’è andata?

«Bene, però mancava il finale di “Lourdes”. Così l’ho scritto lì, a Milano, mentre Ena Marchi faceva l’editing. Ricordo di averlo stampato subito, e il primo foglio che è uscito riportava solo due parole: papà ama. L’ho interpretato come un messaggio di mio padre dall’aldilà. Tra noi c’era un legame forte quand’era vivo, non si è interrotto dopo la sua morte».

Anche sua madre le parla dall’aldilà?

«Mia madre si è manifestata attraverso un armadio. Mentre scrivevo “Costellazione familiare”, da lì arrivavano dei colpi. Come nelle sedute spiritiche: uno per dire “sì”, due per il “no”. Quando ho terminato il libro, un ripiano all’interno è crollato. Il suo spirito era libero di andarsene».

L’esoterismo, un amore di famiglia?

«C’era nella mia famiglia l’abitudine a organizzare sedute spiritiche. Quasi un gioco da salotto. Del resto, nelle serate invernali c’era tanto tempo da riempire. Mio padre non vedeva quelle cose con leggerezza, le prendeva sul serio. Mi ha introdotto lui ai piani astrali, ai mondi paralleli, a una concezione del tempo come continuum. Mia madre era più scettica, ma non disdegnava il mondo esoterico».

La lingua italiana dei suoi libri è ricca, immaginifica, quasi barocca.

«Non è costruita, fa parte di me. Quand’ero bambina leggevo tutto quello che trovavo in casa. Soprattutto i romanzi dell’800 scritti, o tradotti, in un italiano molto alto. Mi affascinavano le raccolte della “Domenica del Corriere” dell’inizio del ’900. Ricordo una rubrica di Cesare Lombroso. Analizzava casi umani con stile letterario».

Quando ha perso il lavoro si è messa a scrivere?

«Ero nello staff del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Mi occupavo di controllo di legittimità e di merito degli atti afferenti alla firma presidenziale. In soldoni significa: controllare tutti i decreti di nomina. Anche cose importanti come la legge finanziaria. Ho una laurea in Scienze politiche, la tesi in Diritto Costituzionale l’ho discussa con Giuliano Amato».

Perché l’hanno licenziata?

«Finito il mandato presidenziale di Cossiga mi hanno definita “non idonea” a continuare a ricoprire quell’incarico. Una beffa: secondo loro ero troppo “qualificata” per essere una segretaria. Morale? Licenziata. Così ho cominciato a scrivere».

Il legame con Trieste è sua sorella?

«Nel 1994, Francesca ha ottenuto la cattedra che è stata dell’astrofisica Margherita Hack. Prima lavorava a Monaco di Baviera. All’Ospedale di Cattinara è stata ricoverata, per un periodo, mia madre, come racconto in “Costellazione familiare”. A Orvieto non avevano curato bene mio padre, così l’abbiamo trasportata qui. Ed è rimasta per cinque mesi».

Da Orvieto a Genova: perché?

«A Genova mi sono trasferita per amore. Quando ho vinto il Grinzane Cavour ho conosciuto un giornalista, che è diventato il mio compoagno. La città mi ha conquistata subito perché è piena di cani e li ama. Sono arrivata lì con un grande dolore dentro: avevo appena perso il mio cane».

La sua è una famiglia di nobili decaduti?

«Erano conti. Il patrimonio ha iniziato a sgretolarsi alla fine dell’800. Mio nonno si era indebitato per migliorare la situazione dei suoi contadini. Aveva costruito i gabinetti nelle case coloniche: una cosa impensabile, allora. Ipotecando tutti i suoi averi, piano piano sono sparite le proprietà. Quando sono nata io, rimaneva poco o niente».

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