Un banchetto di sapori dove Carmine Abate ritrova i suoi ricordi

di ALESSANDRO MEZZENA LONA
Difficile immaginare un incontro tra canederli e pipi e patate. Perché uno parla del Nord, del Trentino, di un mondo fatto di montagne altissime e boschi infiniti. Di temperature gelide e una diffidenza innata verso chi è “foresto”. L’altro piatto ha il sapore del mare e del sole di Calabria. Di una terra un po’ epicurea, abituata alla miseria e alla scarsità di lavoro, ma proprio per questo pronta a cogliere le cose belle della vita quando arrivano.
Due pianeti lontani, in apparenza. Due microcosmi che vivono in armonia e in sintonia nei libri di Carmine Abate. Perché lo scrittore, che ha vinto il Premio Campiello nel 2012 con “La collina del vento”, è nato nel paese di Carfizzi in Calabria. Figlio della comunità arbëresh, cioè gli albanesi scappati nel Meridione d’Italia dalla loro terra nel Quattrocento dopo l’invasione dell’esercito terco. E vive in Trentino, a Besenello, ormai da parecchio tempo. Dopo aver seguito da ragazzo il padre emigrante ad Amburgo, in Germania, dove ha conosciuto la ragazza tedesca che poi ha sposato.
Che Abate sia uno scrittore di razza, non lo scopriamo di certo oggi. Dopo il saggio “I germanesi”, dedicato agli italiani costretti a cercare lavoro e fortuna in Germania, ha sfornato una lunga serie di libri belli: da “Il ballo tondo” a “La moto di Scanderbeg”, da “La festa del ritorno” a “La felicità dell’attesa”. Ma questo nuovo “Banchetto di nozze e altri sapori”, pubblicato da Mondadori (pagg. 167, euro 15), si fa apprezzare in modo particolare. Perché ripercorre la biografia dell’autore, dall’infanzia calabrese fino al successo letterario nel Nord d’Italia, associando ai diversi momenti della vita, alle storie che ne scandiscono in maniera significativa il tempo, il ricordo delle cose mangiate.
Partenza e arrivo hanno come scenario un posto magico per Abate: Punta Alice, la spiaggia dove lo portava sua nonna da bambino. E dove lui, poi, ha ricondotto suo figlio. Per fare in modo che il ricordo del panino con la frittata mare e monti, sparito in volo nel becco di un gabbiano, potesse tornare. E consentirgli di prendersi la giusta rivincita. Di mettere a posto i conti con il passato.
Da lì, ogni racconto assume il profumo e il sapore delle pietanze legate alla memoria. Così, accanto alle tredici cose buone che in famiglia erano obbligatorie per festeggiare il Natale, ritorna l’immagine del padre di Abate. Costretto a emigrare in Germania per portare a casa un po’ di soldi. Illuso, per un periodo, di poter rinunciare a emigrare, vendendo frutta in giro per i paesi della Calabria. Ma ben presto disilluso. Avviato verso un mondo freddo, fatto di altre abitudini, di altri sapori. E di una nostalgia difficile da tenere al guinzaglio.
Nel libro di Abate ritornano i personaggi che hanno lasciato un segno forte sulla sua giovinezza. Come il cuoco d’Arbëria, protagonista di un favoloso banchetto di nozze e poi costretto pure lui a emigrare, senza rinunciare ai sapori della sua terra. O come il cane di casa, capace di trovare quella str. ana patata profumata che, poi, si rivelerà un fantastico tartufo. O come mamma Abate, capace di sfornare pietanze “saporitòse” che nemmeno il miglior ristorante portava in tavola.
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