Un “Satantango” per la libertà
L’ungherese László Krasznahorkai a Firenze

Due anni fa, nel 2015, gli hanno assegnato uno dei più importanti premi letterari internazionali, il Man Booker Prize. In questi giorni, dopo l'uscita in traduzione italiana del suo primo romanzo, “Satantango” (traduzione di Dora Varnai), è nel capoluogo toscano in lizza per il premio Gregor Von Rezzori Città di Firenze, giunto quest'anno alla sua undicesima edizione. Parliamo di László Krasznahorkai, classe 1954, da tutti considerato il più grande scrittore ungherese vivente.
A contendersi con lui il prestigioso riconoscimento fiorentino sono altri quattro finalisti: i francesi Mathias Énard con “Bussola” (Edizioni e/o) ed Édouard Louis con “Storia della violenza” (Bompiani), la messicana Valeria Luiselli con “La storia dei miei denti” (La nuova frontiera) e infine il tedesco Clemens Meyer con “Eravamo dei grandissimi” (Keller). Il verdetto della giuria verrà annunciato domani nella Sala d’Arme di Palazzo Vecchio, dove alle 18.30 avrà inizio la cerimonia di premiazione.
“Satantango” è un libro potente, di forte carica inventiva e di assai efficace tensione narrativa. È la storia di un gruppo di reietti che, negli ultimi anni del regime comunista, vivono un'esistenza priva di speranza nella cooperativa agricola ormai in sfacelo di un piccolo villaggio ungherese. Tutti vorrebbero andarsene, e l'unica possibilità è quella legata al denaro che riceveranno dalla chiusura della loro fattoria collettiva. La monotonia dei giorni e dei gesti viene, però, interrotta dal ritorno di Irimiás, sparito due anni prima e dato ormai da tutti per morto. L'uomo viene subito visto come una sorta di nuovo messia, ma presto gli abitanti del villaggio si troveranno a far fronte alla perfida astuzia di questo ambiguo personaggio, che genererà nella piccola comunità tutta una serie di conflitti destinati a deflagrare senza possibilità di scampo. Questo capolavoro dark, primo libro di Krasznahorkai pubblicato nel 1985 in Ungheria e ormai considerato un vero e proprio classico contemporaneo, è stato trasposto per il grande schermo nel 1994 dal regista ungherese Béla Tarr in una pellicola in bianco e nero della durata di oltre sette ore.
Krasznahorkai, com'è arrivato a pubblicare nel 1985, prima della caduta del regime, un libro sostanzialmente anticomunista come questo?
«È vero, potremmo definire “Satantango” un libro "anticomunista", ma quando l'ho scritto non avevo intenzione di criticare uno specifico sistema politico-sociale. Chi, come me, era nato e cresciuto in un regime di quel tipo non tendeva a incolpare il comunismo delle cose che non andavano bene. La nostra critica si appuntava, più in generale, sulla vita e sulla realtà in quanto tali. È probabilmente per tale ragione che quest'opera continua ancora a essere apprezzata dopo molti anni dal crollo dell'Unione Sovietica e dei suoi regimi satelliti».
Fatto sta che nel 1985 le autorità ungheresi accettarono che venisse pubblicato un testo così potenzialmente eversivo...
«Forse anche le maglie della censura si erano allentate. Nessuno poteva prevedere che di lì a pochissimi anni il comunismo sarebbe finito. Però c'erano nell'aria dei segnali di stanchezza sempre più evidenti. Ebbi la sensazione del crollo imminente quando, tornando in Ungheria dopo il mio primo soggiorno all'estero, a Berlino Ovest, attraversai il confine con l'Austria. Era l'autunno del 1988 e mi colpì il fatto che gli agenti della polizia di frontiera fossero tranquillamente seduti a mangiare... Cosa che sarebbe stata impensabile fino a pochi mesi prima».
Chi è Irimiás? Un impostore? Un mistificatore? Un genio del male?
«È un po' tutte queste cose insieme, ma direi che è soprattutto un falso profeta. Il problema è che la gente è sempre assetata delle parole dei falsi profeti. I veri profeti, come si sa, non vengono ascoltati. Gli impostori invece trovano molto spesso una larga audience».
Come mai?
«Perché chi ti dice come stanno davvero le cose rischia di essere moltesto e sgradevole. È più facile dare il proprio assenso anche a coloro che dipingono prospettive tutte rose e fiori. Gli esempi non mancano neanche nell'Ungheria di oggi».
A chi sta pensando?
«Prendiamo l'attuale primo ministro ungherese, Viktor Orbán. C'è almeno un quarto dei miei connazionali che lo seguono entusiasti e che credono ciecamente a promesse che nessuno sarà in grado di mantenere, come l'idea, tutta propagandistica, di un'impenetrabilità del Paese ai flussi migratori. Ma preferisco parlare di letteratura».
Prego.
«Uno dei miei primi soggiorni lunghi fuori dall'Ungeria è stato, nella seconda metà degli anni '80, proprio a Trieste. Nella vostra città ho sempre tovato qualcosa che mi faceva sentire a mio agio: una molteplicità di radici culturali capaci di offrire una visione aperta e stimolante per uno scrittore».
Come è giunto a Trieste?
«Seguendo le orme di Rainer Maria Rilke, avendo come livre de chevet le sue “Elegie duinesi”. Trieste è per me, appunto, sinonimo di grande letteratura, uno dei luoghi al mondo più capaci di ispirare la creatività degli artisti, oggi come ieri».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo
Leggi anche
Video