Un’amicizia fra i boschi fino all’ultimo sorso. Mauro Corona conserva così la sua memoria

Qualche giorno fa sono saliti da lui quelli di Striscia la notizia. Lo hanno stanato in un bar sul lago di Misurina e gli hanno consegnato il Tapiro d’oro, un premio sberleffo che va a chi si è preso una fregatura. E per Mauro Corona, il ruvido intagliatore, filosofo e scrittore di Erto, la fregatura è stata la cacciata da Cartabianca. Aveva chiamato gallina la conduttrice Bianca Berlinguer, un epiteto che tradiva una misoginia da machismo montanaro. Lei lo ha perdonato, Franco di Mare, direttore della terza rete, no. Geloso, dicono alcuni, perché Corona gli aveva soffiato il premio Bancarella una decina di anni fa. Come che sia andata, il Tapiro è un riconoscimento che va a chi fa parte del circo mediatico della tv e Corona è uno di questi.
Ha un bel raccontare di martore in volo, di solitari falciatori di valli perdute tra Friuli e Bellunese, lui è diventato un personaggio famoso, a suo agio nella piazza caciarona dei salotti televisivi. Famoso tanto che Maurizio Crozza ne ha fatto una imitazione delle sue, una maschera da commedia dell’arte, col fiasco di vino sempre a portata di mano. Accanto alla maschera però c’è il Corona scrittore che continua a sfornare libri, quasi trenta finora e l’ultimo in uscita proprio in questi giorni, che si intitola “L’ultimo sorso. Vita di Celio” (Mondadori, 199 pagg., 18,50 euro). Uno Spoon River per voce sola. Un atto d’amore dedicato al suo maestro di vita, Celio, un paesano di Erto, nato nel 1910 e morto sessantacinque anni dopo, protagonista di una vita di lavoro, montagna, anarchia, ribellione e alcol.
Celio non ha fatto niente di importante, ma a suo modo è stato un grande. Talentuoso rocciatore, ingegnoso apicoltore, minatore emigrante, ha vissuto orgogliosamente una vita di solitudine in mezzo ai boschi. Parco di parole, generoso con tutti, ha scelto Corona come amico che il futuro scrittore aveva nove anni. Lo ha allevato, entrambi orfani di padre, entrambi refrattari alle regole. Gli ha insegnato a scalare, lo ha portato a cacciare, lo ha svezzato alla bottiglia. Si beve molto in queste pagine, dove si incontrano uomini rozzi, dai modi spicci, misogini, bevitori e gran faticatori. Corona racconta pianamente di un’amicizia, andando avanti e indietro nella sua memoria, in quella che Celio ha sedimentato negli altri. Corona scrive per salvare la memoria, perché “un giorno le memorie aiuteranno a ricostruire universi scomparsi e dimenticati. I ricordi mi dicono: siediti qui e iniziano a raccontare”.
Per Corona la memoria va salvata in tutti i modi: con la scrittura, la scultura, la pittura, con qualsiasi mezzo che ferma un ricordo. Scrivere è una forma di sopravvivenza, una lotta contro l’oblio. Leggiamo allora di Celio e Mauro. A dieci anni diventano amici, le stesse passioni, vita all’aria aperta, la caccia, la pesca, le arrampicate, i boschi, il vino. Corona ammira il sarcasmo delle battute con cui Celio mette tutti al tappeto nelle osterie, la sua bontà di timido indifeso e senza falsità. La sua capacità di bastare a sé stesso, di passare la vita in solitudine, come se avesse falciato il prato attorno a lui. Le donne? Devi provarle prima in verticale e poi in orizzontale, ammonisce Celio, che non sopporta la scuola, le domande, le costrizioni a studiare, a fare qualunque cosa.
Ma da adulto diventa un lettore, a modo suo, un curioso di tutto. Uno che beve e beve, ciocche epiche e poi al mattino via in montagna a fare una scalata. Non prima di un caffè annegato nella grappa. Ma…c’è un ma. Corona avverte il lettore che Celio non è mai esistito. Questo avventuriero tragico e geniale, che finirà consumato dall’alcol e scosso dal delirium tremens, è frutto della sua fantasia. C’è da credergli? Chissà. Magari avrebbe voluto incontrarlo, magari è la somma di tanti incontri, di aneddoti sovrapposti. Qualcuno così, sulle montagne, è esistito di sicuro. Magari è Corona stesso a guardarsi nello specchio annerito dal tempo e a raccontare. Forse Celio è non è altri che lui.
Corona piace. E vende. Quattro milioni e mezzo di copie in tutto il mondo. Un successone. Stile semplice, frasi brevi, pensieri leggeri e vaganti come le nuvole sopra la Val Zemola. “Per me scrivere è fotocopiare un pensiero, una sensazione, un ricordo usando meno parole possibili”, si legge nel suo sito web. E ancora: “lavoro per sottrazione, come in scultura, per dare forma bisogna togliere, non mettere”.
Corona piace perché è il rassicurante, anche se incazzoso, cugino che sta in montagna, che ama e percorre in lungo e in largo, di cui annusa i profumi, sa i segreti, santifica i riti, uno che rispetta gli animali, ma non esita a sparargli. Corona incarna la tradizione di un mondo arcaico che è ovviamente scomparso ma che fa piacere immaginare che ancora esiste da qualche parte, che resiste e si perpetua. Un mondo che è diventato uno dei tanti fake di cui siamo circondati, ma non importa. L’alpino Rigoni Stern, un altro montanaro che sul suo Altipiano di Asiago scriveva di boschi e api, il sergente nella neve della ritirata di Russia non sarebbe andato in tv a parlare degli urogalli. O forse, fosse vissuto oggi, magari anche. Ogni tempo ha i suoi eroi. Per questo Corona piace, perché è come noi, come questo tempo, dove tutto è un po’ vero e un po’ per finta. —
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