Vandelli: «Shel Shapiro e io il nostro “Love& Peace” un memo per non litigare»

UDINE. È vivo lo spirito dei Sixties? Lo sapremo questa sera, alle 21.15, al Castello di Udine per il 41° Folkest, quando saliranno sul palco due protagonisti della scena musicale di quegli anni, Shel Shapiro e Maurizio Vandelli, impegnati in una tappa del “Love&Peace live tour”.
Vandelli, come nasce il tour con Shapiro?
«Pochi anni fa, son partito con l’idea di fare un concerto assieme a lui, ma, conoscendo il suo carattere, non ho avuto il coraggio di chiederglielo. Dopo due-tre mesi, mi ha chiamato lui, domandandomi la stessa cosa. E così abbiamo cominciato, anche se siamo molto diversi».
Si spieghi...
«Ci conosciamo da molti anni. La prima volta che l’ho incontrato, al Piper, gli ho proposto di suonare qualcosa insieme e lui, senza alzare gli occhi, “Nessuno può venire a dire a me cosa fare e cosa non fare”, mi ha risposto. Ecco, è così. Io cerco sempre l’ironia e l’autoironia, lui no».
“Love&Peace”, un titolo politico e un po’ rétro…
«Forse è Shel a vederlo come un titolo politico. Io, piuttosto, lo vedo come un promemoria tra noi, per non litigare. Nessuno di noi due è nostalgico, ma secondo me, lui, su certe questioni, è orientato al passato: per esempio adora l’lp, mentre io la musica la scarico da Internet. Sono un “futurista”, un amante della tecnologia».
Ma come sono i rapporti tra voi, al di fuori del palco?
«Semplicemente, non ce ne sono. A nessuno viene in mente di invitare a cena l’altro. La convivenza artistica ci basta».
Perchè, allora, aveva pensato proprio a Shapiro?
«Perché noi eravamo i gruppi che rappresentavano una certa corrente. Sì, a Equipe 84 e Rokes si sono ispirati centinaia, se non migliaia, di musicisti e abbiamo fatto parte della storia della musica italiana. Chiamavano quel periodo “beat”, ma, e su questo siamo d’accordo, facevamo rock. Eravamo, insomma, i due gruppi più importanti d’Italia.
Se lo limitiamo alle note, cosa resta, oggi, di quel periodo?
«Solo il fatto che molte canzoni che presentiamo nei concerti (per esempio alcune di Mogol) hanno testi così attuali che sembrano scritti ieri. In altre parole, purtroppo non è cambiato niente».
Che programma presentate?
«La maggior parte è formata dal repertorio di Equipe e Rokes, per lo più cantate assieme. Quindi “Tutta mia la città”, “Che colpa abbiamo noi”, “29 settembre”, “È la pioggia che va”, “Io ho in mente te” e tante altre. Due ore e venti circa di spettacolo, con un momento acustico dove ricorderemo altre canzoni. Per me è un concerto da vedere: tecnologico e molto bello».
Ha conosciuto Lennon, McCartney, Brian Jones, Keith Richards, Hendrix. Chi l’ha colpita di più?
«In ciascuno di questi mi ha colpito qualcosa. Ma posso dire che Keith Richards lo credevo più preparato alla chitarra: abbiamo suonato assieme per un giorno intero. A Jimi Hendrix, invece, ho fatto sentire un brano dell’Equipe dove avevo copiato pari pari, alla fine, un suo assolo, quasi per farmi mandare a quel paese. Mi ha ringraziato, abbracciandomi. Brian Jones, invece, aveva un carattere un po’ “schizzato”». —
A.P.
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