Vanna Vinci racconta in “Aida al confine” Trieste come l’altrove

di ALESSANDRO MEZZENA LONA
La prima volta che Vanna Vinci ha visto Trieste, la città in realtà non c’era. Si vedeva in maniera nitida il golfo, il Castello di Miramare, le navi al largo. Sullo sfondo compariva qualcosa di sfuggente. Come un avamposto di palazzi e strade messo lì a segnalare che, attenzione, si stava varcando il confine verso l’altrove.
Poi, Vanna Vinci ha deciso che Trieste meritava di essere guardata più da vicino. E girando per le vie, ascoltando la gente parlare, esplorando gli angoli più segreti, si è trovata faccia a faccia con i propri fantasmi. Con le ombre inquiete di una donna cresciuta in Sardegna, diventata autrice di storie a fumetti a Bologna, affermatasi come una delle firme italiane più importanti nella letteratura disegnata. Con le domande di una scrittrice e disegnatrice che non ha paura di guardare oltre il recinto della realtà. Nella zona di penombra dove la luce della quotidianità si fa un po’ più fievole per lasciare posto ai riflessi oscuri del mistero.
Ha preso forma, così, una storia originale e magica. Un piccolo gioiello di narrativa disegnata uscito nel 2003, per Kappa Edizioni, a confermare quanto di buono l’autrice aveva fatto vedere nelle sue prime opere: “Ombre”, “Guarda che luna”, “Lillian Brown”, “Viaggio sentimentale”. Adesso, a quattordici anni dalla prima edizione, “Aida al confine” ritorna in una nuova versione pubblicata da Bao Publishing (euro 17). Con un’appendice ricchissima in cui Vanna Vinci racconta la genesi e il divenire della sua opera, svela alcuni segreti del passato della sua famiglia e propone una galleria di disegni-abbozzi per la copertina.
Nata a Cagliari con Giove in Toro (quindi con un «carattere meraviglioso», scherza lei), conosciuta per la sua geniale Bambina Filosofica, per la versione disegnata del “Richiamo di Alma” di Stelio Mattioni, ma anche per alcune biografie reinventate a modo suo della marchesa Casati, “La musa egoista”, di Tamara De Lempicka e di Frida Kahlo, Vanna Vinci immagina Trieste come l’ingresso a un’altra dimensione. Dove la sua protagonista, Aida, si trasferisce da Bologna senza un motivo reale. O meglio, alla cugina Mara rifila la spiegazione che ha deciso di iscriversi all’università proprio lì. Ma lo fa piangendo al telefono, e poi non dice molto di più quando lei la accoglie alla stazione di piazza Libertà con una raffica di dubbi.
In realtà, Aida se n’è andata da Bologna per staccarsi da se stessa. E, allo stesso tempo, per fare chiarezza nelle proprie zone buie. Così, decide di andare a vivere nella casa dei suoi nonni materni: il palazzo di via Tigor con i mascheroni che urlano e la sfilata di misteriose statue che, come una processione di anime inquiete, accompagnano gli inquilini fino all’ingresso. E lì, ad accoglierla, trova il nonno e la nonna. Tutto normale? No, perché loro sono morti da tempo. Eppure parlano, le preparano la cena, la esortano a non tirare tardi per non fargli stare in pensiero.
I morti non fanno paura, tanto più se hai voluto loro bene. Così Aida accetta quella strana situazione come se fosse normale, anche se la cugina e gli. amici cominciano a farsi domande sulla sua salute mentale. In una Trieste che sembra sempre sorpresa nel bel mezzo di un sogno, la ragazza che veste come una dark, ama i Clash e Rino Gaetano, ascoltando le ombre dei suoi nonni scopre una storia che nessuno le ha mai raccontato. Lo zio Nino è sparito nel nulla quando in città, e nell’Italia intera, si era scatenata la caccia agli ebrei, dopo la proclamazione delle leggi razziali.
Ritornerà dall’aldilà anche il bel tenebroso Nino, come un’anima in pena, ad abitare le notti di Aida. A scortarla verso la scoperta di un passato che non passa mai. Perché Trieste, finita la Seconda guerra mondiale, ha fatto fatica a confrontarsi con l’orrore che ha riempito il suo orizzonte. Preferendo non fare i conti con le persone ammassate come dannati negli stanzoni della Risiera, con il forno crematorio che bruciava corpi umani senza che nessuno intervenisse.
Disegnando “Aida al confine”, rovistando tra la Storia e i ricordi, Vanna Vinci ha ritrovato la figura di suo nonno Vincenzo. Partito a 19 anni come sottufficiale sul fronte della Grande guerra, raccontava di soffrire spesso di incubi. Come in un onirico eterno ritorno, era costretto a rientrare, di notte, nell’inferno delle trincee.
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