Vasco Brondi spegne le Luci «È tempo di fare un altro salto»

Vasco Brondi ha deciso di spegnere Le Luci della Centrale Elettrica: «Sento di poter chiudere un progetto nato all’improvviso e con stupore dieci anni fa – racconta il cantautore – e che si è evoluto tantissimo nel tempo, cambiando insieme a me, regalandomi un “futuro inverosimile”». La fine di un ciclo e l’abbandono di un nome d’arte sono celebrati con il doppio album «2008-2018: Tra la Via Emilia e la Via Lattea», un libro edito da La Nave di Teseo e un tour nei teatri che fa tappa stasera alle 20.30 al Teatro Candoni di Tolmezzo (sold out) per MusiCarnia di Euritmica. Accompagnano Brondi: Rodrigo D’Erasmo (violino), Andrea Faccioli (chitarre), Daniel Plentz e Anselmo Luisi (percussioni), Daniela Savoldi (violoncello), Gabriele Lazzarotti (basso) e Angelo Trabace (pianoforte).
«Mi sta arrivando molto affetto – prosegue – e credo sia il tour più bello che abbia mai fatto. È il concerto più grande come band, produzione, arrangiamenti e al tempo stesso il più piccolo perché c’è una parte in cui sono da solo sul palco come dieci anni fa e racconto avventure di quel periodo o leggo cose che mi va di leggere. Tende al silenzio per poi arrivare al fragore. Ci sono dentro tutti i concerti che ho fatto finora, tutte le atmosfere che ho attraversato».
Incide per La Tempesta di Pordenone. Che legame ha con questa zona?
«Forte. Ultimamente ci vengo più spesso perché sto collaborando assiduamente con un grande fonico, Paolo Baldini, nel suo studio a San Foca in provincia di Pordenone. Per il mio ultimo disco “Terra”, ci ho passato un gelido e assolato gennaio».
Com’è stato lavorare con Tiziana Loporto, esperta di musica e letteratura, al suo ultimo libro?
«Tendo sempre a lavorare con amici, si dice non sia una cosa saggia ma per me non c’è alternativa. Con Tiziana è nato questo libro da nostre conversazioni qui a Ferrara; è un racconto in prima persona, un mio monologo di avventure, non un libro di interviste. Tra una fanzine, un album artistico, un diario, pieno di colore con locandine, disegni, immagini dalla strada, dall’albergo, dal palco: l’art director Rossella Merighi, ferrarese come me e anche lei amica e collaboratrice da una vita, ha fatto un lavoro meraviglioso. Sono molto contento che dentro ci siano anche gli artisti che ho incontrato in questi anni e che poi sono diventati amici, Manuel Agnelli, Jovanotti, Rachele Bastreghi, Daria Bignardi, Francesco De Gregori e tanti altri».
Ha scritto di essere stato “accerchiato, insultato, idolatrato”. Come ha gestito le cose?
«Le ho semplicemente vissute. Le espressioni artistiche che ho sentito più vicine e con cui sono cresciuto sono spesso diventate controverse. Autori capaci di lasciare un segno, anche piccolissimo, nel loro tempo e che per questo diventano un’ossessione per i propri contemporanei. Amati o disprezzati ma destinati a essere al centro dell’attenzione. Sono contento quando sento che qualcosa del genere succede a me. Pure chi non apprezza per niente quello che faccio ha sentito in qualche modo di doversene occupare. Mi hanno fatto crescere anche gli insulti. Mi torna sempre in mente un proverbio turco che dice ci sono cose che non meritano neanche di essere ignorate. Anche ignorarle è troppo, si rischia di dargli un’importanza sproporzionata».
Scrive anche “è arrivato il momento di fare spazio ad altro, per la bellezza e la follia di ricominciare”.
«È importante che il mio sia sempre un lavoro vivo, per ogni disco c’è stato qualche piccolo salto evolutivo e credo continueranno a esserci». —
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