Vita agra di Aldino il figlio di Togliatti finito in manicomio

di FEDERICA GREGORI
Un'anima fragile e sensibile, incapace di rivelarsi al mondo, arroccata in una solitudine impenetrabile. L'“asserragliato”, lo chiamano, anche se i suoi timidi tentativi per uscirne o non vengono capiti o arrivano fuori tempo massimo. Ma a dispetto delle apparenze una richiesta c'è, ed è chiara: è la voglia di andare altrove, di essere portato via. Riprendendo quell'anelito, “Un'altra parte del mondo” (Feltrinelli, pagg. 352 pagine, Euro 18,00) è il libro che Massimo Cirri, giornalista, psicologo e storica voce di Caterpillar dedica alla figura, sfaccettata, complessa e di fatto sconosciuta, di Aldo Togliatti, uno che «al centro delle cose non ci vuole stare» a differenza del padre, trascinatore di masse e leader del Partito Comunista Italiano Palmiro Togliatti. Nel farlo, ricompone le tessere di un mosaico composito e cangiante, un tracciato esistenziale che tocca da vicino, vicinissimo, la grande Storia, con la sua scia di dolore e di sangue. Ma parliamo pur sempre di Massimo Cirri, uno che ci ha abituato ad interventi spiritosi e brillanti: e se a volte gli accenti sono più lievi, è una venatura delicatamente amara a pervadere la vicenda, dagli anni in Russia al difficile ritorno in Italia fino ai problemi di salute mentale che porteranno il protagonista, dopo la morte della madre, al ricovero in una clinica dove ha passato gli ultimi trent'anni della sua vita, fino alla morte.
Com'è venuto a conoscenza di questa vicenda e cosa l'ha incuriosita?
«Avevo letto qualche articolo quando Aldo Togliatti è morto, nel luglio del 2011. Non ne sapevo nulla e mi era venuta subito in mente Trieste perché leggendo di un signore che muore in una clinica psichiatrica, di fatto in un manicomio, dopo esserci stato dentro per 31 anni, mi ricordo distintamente il pensiero che mi era venuto: è successo a Modena, ma a Trieste non sarebbe successo. Mi sono chiesto cosa sarebbe successo ad Aldo se fosse capitato nella vostra città o in uno degli altri luoghi dov'è nato un meccanismo per cui le persone, anche se molto matte, non vengono rinchiuse. Ne avevo parlato con Peppe dell'Acqua in un Natale a Cherso, poi l'idea è rimasta lì. Avevo letto anche un paio di libri sulla guerra russo-tedesca: non ne sapevo molto, mi avevano colpito per la violenza e il carico di morte e credo che emotivamente ho messo insieme questi due temi. Sono stato un anno a cercare labili tracce di Aldo. È iniziata così».
Chi legge inizia a scoprire questa «corazza di gentilezza impenetrabile» in un soggiorno a Cervinia con Luciano Barca, dove tutta la tensione accumulata in settimane si scioglie nel viaggio di ritorno in uno sfogo da fiume in piena.
«Ci sono due ragazzi: uno ha fatto la guerra, è più vaccinato, l'altro ha 21 anni e comincia ad essere sempre più prigioniero di se stesso, chiuso, timido, anche se non è ancora malattia. Si sforza perché non vuol essere com'è ma non ce la fa a cogliere l'opportunità di stare in compagnia. Anche perché credo sappia bene che in quel soggiorno ce lo ha mandato suo papà, per placare le preoccupazioni. Ma coglie l'ultima possibilità, facendo quelle cose che si fanno in treno, all'ultimo minuto, e finalmente dice tutto quello che gli pesa sull'anima, soprattutto l'incazzatura con i genitori».
«I figli dei più autorevoli dirigenti comunisti furono infelici», ha scritto Miriam Mafai. Lei sviluppa i capitoli centrali, amari, toccanti, su Ivanovo, il collegio che accoglierà Aldo insieme ai figli dei rivoluzionari di tutto il mondo, da quelli di Mao a Žarko, figlio di Tito. Lì il senso di abbandono e l'irregimentamento saranno in tanti a patirlo.
«E il fatto è che nessuno poi ne parla male. Ho parlato con tre persone che a Ivanovo, che ha funzionato fino a pochi anni fa, ci sono state, tra cui Bianca, figlia del triestino Vittorio Vidali. Lei ha 86 anni, sta a Livorno e parla ancora con un accento sovietico spettacolare. Nessuno dei tre lo racconta come un collegio cattivo o pieno di violenza. Ci son le cose da collegio, certo, scorribande, tensioni, ma non ne parlano mai come di un luogo che uccide le umanità».
Dove però raccontano la storia di Pavlik, primo eroe bambino dell'Urss, che vuole più bene al Partito che al padre al punto da denunciarlo. Tutto falso, naturalmente.
«Terrificante. Quello è l'indottrinamento, è la costruzione dei miti che l'Unione Sovietica fa. C'è tutta la conduzione psicologica infelice di stare in un collegio: ci sono quelli che i genitori non li hanno perché glieli hanno ammazzati, quelli che i genitori vengono ogni tanto, quelli, come la ragazza di Udine Anita Galliussi, che la mamma viene a trovarla e il papà non lo rivedrà mai».
Bambini abituati fin da piccoli a vivere da fuoriusciti, addormentati a forza di sonniferi alle frontiere e in perenne movimento. Sacrificati alla causa, al Partito?
«È la questione, complicata, di vite prese da un grande compito: quello della Rivoluzione. Si può dire che si sarebbe potuto agire diversamente, ma a quei tempi e a quelle condizioni non credo fosse possibile. Sono le grandi macchine della storia che stritolano le persone. La signora Bianca Vidali, che a Ivanovo è stata dieci anni, è una che poi ha fatto le tappe della sua vita. C'è che ci passa dentro e ne esce indenne e chi, invece, gli rimane dentro qualcosa di ben altro».
Come per Aldo. Una delle linee più forti del libro non può non essere il rapporto col padre, “il Migliore”, figura enorme, ingombrante, quello che trascina le folle mentre Aldo è ai margini. Un rapporto in cui ci sono colpe?
«Credo ci sia piuttosto la difficoltà, l'impossibilità a volte, di tenere insieme tanti piani della vita. Tanti di più se devi costruire un mondo nuovo e ti trovi ad essere il segretario del Partito Comunista più importante dell'Occidente, il problema è come tenere insieme tutto questo con un dovere di genitore. Dalle tracce che ci sono viene da dire che Togliatti padre, uomo disegnato come antipatico, cinico, sopravvissuto alle purghe dello stalinismo, ci prova a tenere vivo il legame con il figlio: esistono lettere che i due si scrivono e che testimoniano questo progressivo allontanamento, doloroso anche per Togliatti padre. La stampa democristiana e i fascisti di allora utilizzeranno in maniera bruttissima questa vicenda personale per dire che Togliatti ha lasciato la moglie per mettersi con una ragazza più giovane (Nilde Jotti, con cui adotterà una figlia perché il Partito impedirà di fare un figlio insieme, ndr). Togliatti però fa anche una cosa di banale modernità: s'innamora di un'altra donna e invece di far finta di nulla si mette contro tutti, detrattori ma anche i suoi, si prende accuse di essere amorale, un puttaniere, e tutto questo gli porterà solo dolore. Mi ha colpito anche lo scenario di fondo, che è quello della guerra mondiale e tra Germania e Urss, quando Togliatti viene accusato di insensibilità nei confronti degli alpini italiani prigionieri in Urss, argomento usato come lotta politica. Ma sono anni di una violenza inaudita, dove morivano 29 milioni di sovietici, un'ecatombe».
Aldo passerà 31 anni a Villa Igea a Modena anche se, testimonieranno altri degenti, non l'hanno mai visto dar segni di squilibrio. Lei parla di un patto maledetto tra malattia e istituzione. È stato necessario questo ricovero?
«Che lui avesse bisogno di un posto dove stare sì, che fosse necessario metterlo in un luogo così chiuso credo di no. Nel '94 quando lo scoprono i giornalisti della “Gazzetta di Modena” raccontano che fino a un certo punto Aldo va in giro, si muove, va in gita, ma dopo qualche anno non fa più nulla. Perché dopo anni che stai in un luogo chiuso non sei più una persona».
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