Zora Perello, il sogno di un mondo libero che si spense nel lager

La vita della giovane antifascista morta a Ravensbrück raccontata dalla giornalista Lida Turk in un libro
Di Alessandro Mezzena Lona

di ALESSANDRO MEZZENA LONA

Le favole con un finale triste, lugubre, preferiva non raccontarle alla «bambina meravigliosa». Perché mamma Pavla Kocijan›i› voleva che sua figlia Zora Perello crescesse con la gioia nel cuore. Che affrontasse la vita sorridendo. Senza pensare, fin dai primi anni, alle storie più brutte. Con cui, un giorno, avrebbe dovuto comunque fare i conti.

Ma la magia delle fiabe più belle è durata poco per Zora Perello. Perchè questa ragazza, definita dallo scrittore Boris Pahor la Anna Frank triestina, ha conosciuto la penombra lugubre di una prigione quando aveva appena 18 anni. E la polizia fascista era andata ad arrestarla nella sede del Liceo Dante di Trieste, che frequentava con buon profitto. Da allora, il calvario l’ha portata a conoscere il confino, di nuovo il carcere, la tortura. E un durissimo campo di concentramento nazista come quello di Ravensbrück, dove si è spenta il 21 febbraio del 1945.

Troppo presto la memoria di questa «bambina meravigliosa», come la chiamava mamma Pavla, di questa «bella tigre», come l’avevano ribattezzata i suoi carnefici, è sfumata. Forse perché lei credeva nel verbo comunista. Forse perché era figlia di una slovena e di un italiano arrivato in città da Reggio Calabria. Forse perché sognava un mondo fatto di giustizia, libertà e solidarietà che, dopo la Seconda guerra mondiale, è rimasto vivo soltanto nelle illusioni di qualche sognatore. Forse, infine, perché era una donna che non si piegava agli ordini di nessuno.

Adesso, a rifrescare la memoria a chi si è scordato di lei, arriva la bella biografia romanzata scritta da Lida Turk, programmista della sede Rai slovena del Friuli Venezia Giulia scomparsa nel 2015. Si intitola semplicemente “Zora”, lo pubblica ZttEst con la Fondazione - Sklad Dor›e Sardo› (pagg. 247, euro 15), nella traduzione italiana realizzata dalla stessa Lida Turk, prima di morire, con Mateja Grgi› e la cura di Martina Kafol.

C’era forse un segno premonitore nella vita di Zora Perello. Anzi, due. Perché era nata il 14 maggio del 1922, nel popolarissimo rione di Servola. Lo stesso anno in cui il fascismo aveva preso il potere in Italia. In più, aveva aperto gli occhi sul mondo poco meno di due anni dopo il tragico 13 luglio del 1920. Quando, nell’assalto che lo storico Renzo De Felice definì «il vero battesimo dello squadrismo organizzato», senza che la polizia intervenisse venne incendiato il Narodni dom. La casa della cultura slovena. Vera e propria dichiarazione di guerra nei confronti dell’altra parte di Trieste: ovvero, il popolo sloveno.

Zora Perello portava su di sé le stigmate di quanto Trieste non avrebbe mai potuto essere solo “italianissima”, come pretendeva il fascismo. Perché lei era nata dall’amore di una triestina slovena per un italiano del Sud. Matrimonio che, purtroppoo, non era durato a lungo. Lasciando nel cuore della ragazza un incolmabile vuoto. Anche se mamma Pavla, come racconta Lida Turk che l’ha conosciuta e ascoltata a lungo, faceva di tutto per non farle mancare nemmeno un grammo del suo affetto.

Non era una ragazza capace di scendere a compromessi con nessuno, Zora Perello. E poi, dopo che il padre se n’era andato di casa, vivere nel rione più “rosso” di Trieste, San Giacomo, aveva finito per avvicinarla alla gioventù comunista. Portando a galla tutta la sua insofferenza per il regime fascista, che avrebbe voluto umiliare in tante persone come lei praticamente tutto: la sua origine slovena, l’essere donna, il fatto di non sentirsi in sintonia con chi comandava.

Come recita il titolo italiano di un romanzo di Boris Pahor, allora a Trieste era proibito parlare lo sloveno. Anzi, di più, non si voleva proprio che “l’altra anima” della città continuasse a esistere. Per questo Zora Perello finì in prigione, la prima volta, che era ancora una ragazzina. Rimase per alcuni mesi nelle carceri dei Gesuiti, insieme a tante altre donne. Ma poco dopo la sua scarcerazione, la presero di nuovo e la fecero processare dal Tribunale Speciale, che la condannò a 18 anni di reclusione. Mandata prima al confino, poi di nuovo in una cella, venne liberata dopo l’8 settembre.

Nel destino di Zora era scritto che non sarebbe invecchiata accanto a suo marito, il partigiano Vojo, sposato in fretta e furia. Mentre i nazisti prendevano possesso di Trieste. Zora venne arrestata dalla Gestapo, torturata senza pietà a Villa Triste dalla famigerata banda Collotti, spedita nel lager di Ravensbrück. Dove si sarebbe spenta il 21 febbraio del 1945.

Non aveva ancora compiuto 23 anni.

alemezlo

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