L’algoritmo che crea sogni: la sfida di Refik Anadol a Gorizia

Intervista al genio dell’arte digitale che firma il progetto del Data Tunnel nella Galleria Bombi

Refik Anadol
Refik Anadol

Sei domande a Refik Anadol, il genio dell’arte digitale che firma il progetto del Data Tunnel nella Galleria Bombi / DAG a Gorizia.

 

L’arte nel buio: nella Galleria Bombi di Gorizia arriva qualcosa di mai visto
Fabrizio BrancoliFabrizio Brancoli
Il Data Tunnel a Gorizia (Foto di Fabrice Gallina)

1. Lei ha addestrato il Large Nature Model su dati visivi, uditivi ed ecologici raccolti dagli ecosistemi di tutto il mondo. Può spiegarci il processo? Come si passa da questi dati alle forme che vediamo scorrere su 925 mq? Cosa decide l’algoritmo e cosa decide lei come artista?

«Quando addestriamo il Large Nature Model, partiamo da tracce reali dell’ambiente, come registrazioni visive, suoni multicanale, misurazioni atmosferiche. Questi set di dati provengono da molti biomi, ognuno con il proprio ritmo. Il modello apprende così il comportamento della natura: modelli di crescita, luminosità, turbolenza, armonia. Da lì, il processo diventa un dialogo. L’algoritmo genera possibilità latenti, quelle che chiamiamo i “sogni” della natura, modelli che non esistono ma che sono statisticamente ed esteticamente radicati nel mondo. Io curo queste possibilità come un pittore sceglie i pigmenti. Guido la composizione, il ritmo, il tono emotivo dell’opera. L’AI decide come si evolvono i micro-modelli; io decido come convivono sui 925 metri quadrati. Nel tunnel si incontrano l’intenzionalità umana e la casualità della macchina».

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2. La Galleria Bombi era un confine, un rifugio antiaereo, un passaggio. Ha scelto di trasformarla in un tunnel dove scorre la natura generata dall’intelligenza artificiale scorre. Perché?

«È un luogo di attraversamenti: un tempo confine, poi rifugio antiaereo, poi passaggio tra due nazioni. Per me la natura è il linguaggio più universale della continuità. È più antica di qualsiasi confine e parla a una memoria più profonda del conflitto. Portando la natura generata dall’AI in questo spazio, stiamo ridefinendo il tunnel. La natura diventa un mediatore, una forza gentile in grado di sostenere il peso emotivo della storia, invitando a instaurare un nuovo rapporto sensoriale con il luogo. Il tunnel è una soglia dove ciò che un tempo era separazione diventa esperienza condivisa».

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3. Il Large Nature Model attinge a dati raccolti da diversi ecosistemi – foreste pluviali, oceani, ghiacciai – e integra anche archivi storici dello Smithsonian Institution e del Natural History Museum di Londra. Come avete costruito questo dataset? Cosa cercate quando raccogliete dati sul campo e cosa vi offrono gli archivi scientifici?

«Stiamo costruendo il Large Nature Model (LNM) non solo come database, ma come memoria collettiva della natura. Per farlo, abbiamo dovuto collegare due mondi molto diversi: il rigore scientifico e strutturato delle istituzioni e l’intelligenza caotica e vivente della natura selvaggia. Abbiamo collaborato con istituzioni come lo Smithsonian e il Cornell Lab of Ornithology. Queste ci forniscono la “verità sul campo”: milioni di esemplari etichettati, tassonomie e documenti storici. Così il LNM ha la struttura necessaria per comprendere ciò che vede.

Abbiamo poi viaggiato in 16 località della foresta pluviale (come l’Amazzonia con il popolo Yawanawá). Non ci limitiamo a scattare foto, ma catturiamo il respiro dell’ecosistema utilizzando LiDAR, fotogrammetria, audio ambisonico e persino sensori olfattivi. Siamo alla ricerca dei dati “invisibili”, ovvero delle connessioni sensoriali che un’immagine statica non è in grado di catturare.

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Un rendering dell’opera “Data Tunnel”

Raccogliamo dati relativi alla velocità del vento, all’umidità, ai suoni ambientali degli uccelli, alla struttura molecolare degli odori. Con gli Yawanawá abbiamo persino incorporato i loro dati culturali, ovvero la loro arte e i loro modelli di vento, perché non è possibile separare la natura dalla saggezza indigena che la custodisce. Il lavoro sul campo fornisce il “battito” del modello. Gli archivi ci offrono scala e memoria. Non possiamo visitare ogni linea temporale, né le specie estinte. Gli archivi ci consentono di insegnare al LNM le specie che non esistono più o che sono troppo rare da trovare. Forniscono le basi: la verifica scientifica che garantisce che le nostre “allucinazioni meccaniche” siano radicate nella realtà biologica».

4. In Data Tunnel lei mostra stati transitori: quando i dati non sono ancora un’immagine completa ma stanno diventando qualcosa. Come li costruisce tecnicamente?

«Gli stati transitori appaiono quando le informazioni grezze sono ancora in evoluzione, non ancora risolte in un’immagine o in una forma. Tecnicamente, catturiamo questi stati congelando livelli specifici del modello. Sono come schizzi nel taccuino di un pittore, tranne per il fatto che esistono solo per millisecondi nella rete neurale. Come artista sono attratto da questi momenti perché mostrano la poetica del processo. Rivelano come pensa la macchina».

5. Lei ha esposto a Palazzo Strozzi, alla Biennale di Venezia. Ha un rapporto continuativo con l’Italia: MEET Digital Culture Center l’ha portata qui per la prima volta nel 2020 con Renaissance Dreams. Cosa la lega a questo contesto? Data Tunnel rimarrà al GAD per un anno: cosa significa per te questo?

«L’Italia mi è sempre sembrata un luogo in cui la storia e l’immaginazione dialogano con straordinaria chiarezza. Il mio primo incontro significativo con questo contesto è stato attraverso il MEET Digital Culture Center nel 2020, quando abbiamo presentato Renaissance Dreams. Quel progetto mi ha fatto riflettere su come l’intelligenza artificiale potesse dialogare con uno dei periodi più trasformativi della creatività umana. Da allora abbiamo esposto a Palazzo Strozzi e partecipato alla Biennale, che ha continuato quel dialogo. Ogni volta sento di imparare dalla profonda memoria dell’Italia e dalla sua architettura. Quando il GAD ha invitato Data Tunnel a rimanere a Gorizia per un anno, questo ha significato molto più di un lungo periodo di installazione. L’opera ha la possibilità di vivere con la città, di assorbire il ritmo della vita quotidiana e di diventare parte della memoria collettiva di questa straordinaria regione di confine. Questo è incredibilmente significativo. È in linea con qualcosa che mi sta molto a cuore: la possibilità che l’arte digitale possa anche appartenere a un luogo, che trasmetta un senso di presenza e instauri un rapporto duraturo con il pubblico».

6. Che cosa fa l’algoritmo che lei non potrebbe fare? In che cosa la sorprende?

«Lavorare con gli algoritmi è un modo per espandere l’immaginazione oltre i limiti della mente. In Data Tunnel, l’IA diventa una sorta di co-creatore, un sistema che interpreta, trasforma e ricompone i dati in modi che non potrei mai ottenere manualmente. Gli aspetti che mi sorprendono di più sono quelli in cui l’algoritmo rivela un momento estetico che sembra quasi emotivo: un gesto di movimento, una transizione di colore, un ritmo di trasformazione che non avrei previsto. Come se la macchina sognasse. Questo elemento di sorpresa è essenziale per la mia pratica. Non voglio che l’IA si limiti a eseguire istruzioni; voglio che mi sfidi, che mi mostri prospettive che vanno oltre le mie. In Data Tunnel, questa sorpresa diventa parte dell’esperienza stessa». —

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