Il Belgio dentro ai sogni di Lukaku

IL PERSONAGGIO
Quando Romelu Lukaku si mette in ginocchio non aderisce a una campagna, racconta una vita e quando porta la maglia del Belgio la storia si fa più intensa.
Lui è nato ad Anversa, una delle città dove hanno sradicato la statua di Leopoldo II, il re «costruttore» che ha ridotto il Congo in schiavitù, il Congo dei suoi genitori dove è nata la madre che ha studiato, è cresciuta senza problemi in una famiglia dove non mancava nulla poi ha dovuto emigrare e si è ritrovata senza più nulla. Lukaku lo ha raccontato diverse volte, nei dettagli: i pasti tutti uguali per razionare la spesa, l’elettricità a intermittenza, le scarpe in condivisione con il padre.
Il pallone è arrivato subito e lo ha fatto crescere in fretta perché con la sua stazza e le sue doti lo spostavano sempre avanti di una categoria. Con quelli di 8 anni quando ne aveva 5, con i 15enni quando ne aveva 12, con gli under 18 a 15 e lì è arrivata Bruxelles: «Ero felice di andarci, di stare finalmente in una città multiculturale dove poter passare dal Marocco al mio Congo nel giro di un quartiere. Dove ho trovato la mia gente». Il suo idolo è Drogba, cuore d’Africa e poster di un continente, ma la capitale di uno Stato che già rappresentava da ragazzino non gli regala solo entusiasmo: «È un posto duro, fatto di contraddizioni, mi ha dato un orizzonte e anche un nome». Il suo ha iniziato a girare presto: Lukaku, quello alto, grosso che segna a raffica». Se ne voleva andare perché il pallone dei giganti lo chiamava altrove e voleva pure tornare «in quelle strade mi sono sempre sentito vivo e mai solo. Tanti condividono il mio percorso». Tanti altri che alle elementari non avevano la tv in casa «e se Zidane faceva un numero in una finale di Champions lo scoprivi tre giorni dopo», tanti che con i primissimi soldi guadagnati giocando si sono comprati il pezzo di un qualche fuoriclasse per sentirlo più vicino: «Nel mio caso un paio di scarpe di Ronaldo della Nike e un completo Puma alla Drogba. Alla cassa mi hanno detto “non si abbinano”. Per me potevano solo stare insieme».
Ora Ronaldo lo abbraccia in campo, dopo averlo eliminato dall’Europeo e oggi si inginocchia anche in nome di quell’infanzia dura, in onore delle città in cui è diventato adulto, dentro a un Belgio che fatica ad affrontare il suo passato a svoltare nel presente. Il Belgio come figlio di una grande gloria internazionale o arroccato in tradizioni che non rispecchiano questa società. Mescolarsi è un successo recente, tutt’altro che acquisito. Ancora succede a strati, per ambienti ed età specifici. L’incrocio di braccia tra Lukaku e De Bruyne, che si ripete a ogni gol, aiuta. È l’immagine della contemporaneità, la foto della nazionale che si fa nazione e anche per questo l’infortunio di De Bruyne, secondo i tifosi, getta cattivi presagi sulla sfida con l’Italia.
Lui, come Hazard non si è neanche ancora allenato dopo l’infortunio, meglio dire il pestaggio, degli ottavi. Due pezzi pregiati mancanti, come minimo pesantemente acciaccati e l’immagine in cui vuole specchiarsi il Belgio che resta a metà. Non è mai solo pallone, c’è un motivo per cui il calcio funziona così bene e non sono i soldi, sono i sogni, gli stessi, da tutte le parti. Quelli realizzati dai campioni che motivano altri bambini a fare lo stesso in un ciclo infinito. Quelli del Belgio sono legati a una generazione d’oro che ora deve brillare per forza. Acerbi nell’Europeo del 2016, belli ma non abbastanza forti nell’esaltante mondiale del 2018 dove hanno perso solo con i vincitori, la Francia e adesso è il momento di sostituire la leziosa etichetta con un vero trofeo prima di invecchiare.
In Belgio ci sono 440 nomi di vie, piazze e statue legate al colonialismo più brutale, una delle più discusse è la targa alla «missione civilizzatrice», si rende omaggio a chi ha deportato persone, rubato materie prime e cancellato libertà. C’è una petizione per rimuoverla, come per spostare i tanti Leopoldo II. Sono tutti in attesa, davanti all’Europeo, al Belgio di Lukaku, al futuro. Loro si inginocchiano per tutto questo e per rispettarli l’ultima cosa che dovremmo fare e imitare senza condividere. —
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