Quando un certo Kobe Bryant in Toscana puliva il parquet...
Chi l’avrebbe mai detto che Cireglio potesse fare concorrenza a Philadelphia.
Nel paesino circondato da boschi di castagni, in provincia di Pistoia, stava crescendo un cucciolo, nato nella “Città dell’Amore Fraterno”, in Pennsylvania, che si sarebbe trasformato nel “Black Mamba”, il rettile nero imprendibile dei Lakers. Kobe Bean Bryant ritornerà in quell’angolo di paradiso con un tale carico di anelli Nba da non riuscire a infilarseli nelle dita.
Non aveva mica lasciato molti amici, allora, fra i compagni di squadra che non vedevano di buon occhio quel ragazzino smilzo dai piedi enormi che requisiva ogni pallone. Una presunzione pari al talento che lo spingeva a sfidare Mario Boni nell’uno contro uno a Montecatini e a proporsi per le amichevoli “open”.
Roland Lazenby, giornalista e scrittore, nel suo monumentale libro “La vita di Kobe Bryant” (ben 745 pagine), ha riservato una parte significativa a papà Joe “Jellybean”, soprannome che sottolineava la straordinaria versatilità per uno alto 2,07. Indicato quale precursore di Magic Johnson, venne ritenuto troppo giocoliere per i gusti degli allenatori, che non digerivano i suoi numeri, fra cui la portentosa schiacciata su Kareem Abdul Jabbar, entrata nella hit parade delle storiche prodezze e che spopola tuttora sul web.
Una manna per il basket italiano: si presentò a Rieti segnando 61 punti in una sola gara, migliorandosi a Reggio Calabria con 69 e andando più volte oltre quota 50 (siccome il frutto non cade lontano dall’albero, il figliolo ne metterà 81). La Maltinti Pistoia decise di fare un grosso sacrificio rilevando il suo contratto per la bella cifra di 150 milioni di lire. E Kobe continuò a unire l’utile dell’assistere da vicino alle esibizioni del papà e degli avversari al non dilettevole servizio di pulizia del parquet. Occasione sfruttata in un torneo a Roma per concludere il primo affare: stracci sul pavimento contro una bicicletta nuova. Di colore rosso.
Pistoia, città affascinante e a misura d’uomo, per certi versi somiglia a Trieste, in primis per lo straordinario sostegno dei tifosi. Ebbe modo di accorgersene anche Metta World Peace, già Ron Artest, al debutto in maglia canturina. Così impressionato dal muro umano eretto nel clima incandescente del PalaCarrara da telefonare all’amico Kobe: «Ehi, fratello, adesso ho capito perché giochi in quel modo».
Nell’esplosione di Kobe c’è qualche traccia di polvere triestina. A Reggio Emilia, dove si erano trasferiti i Bryant, l’imberbe prodigio osservava stupito un giovane dal fisico statuario e si offriva di portagli il borsone alla fine dell’allenamento. Si trattava di Graziano Cavazzon, svezzato alla Ginnastica Triestina e poi passato agli ordini di Boscia Tanjevic.
All’apice del successo, quando i cronisti lo stuzzicavano domandando se il suo egoismo in campo fosse imputabile ai trascorsi nel Bel Paese Kobe ribatteva: «A parte la mia grande elevazione, tutto il resto lo devo all’Italia». —
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