Sacchi: per Capello è stata una liberazione

L’ex ct tra analisi sull’etica sportiva («in Italia il calcio non è uno sport...») e ricordi: «Io mollai il Milan perché ero stanco»
Di Guido Barella
Bonaventura Monfalcone-12.10.2011 Partita Italia-Polonia-Under 20-Stadio comunale-Monfalcone-foto di Katia Bonaventura
Bonaventura Monfalcone-12.10.2011 Partita Italia-Polonia-Under 20-Stadio comunale-Monfalcone-foto di Katia Bonaventura

UDINE

Metti una mattinata ad ascoltare Arrigo Sacchi parlare di calcio e di etica sportiva per poi spaziare tra ricordi e attualità. L’occasione l’ha fornita, a Udine, un incontro organizzato dalla Provincia tra l’ex ct azzurro oggi responsabile tecnico del settore giovanile della Federcalcio e gli studenti delle scuole superiori cittadine. E quello che ne esce è un Sacchi anche amaro in alcune riflessioni, ma sempre pungente e puntuale.

Ecco allora Arrigo Sacchi spiegare che per noi italiani «il calcio non è un sport: lo sport ha regole ferree, e il nostro calcio regole ferree non ha, basta vedere gli ultimi scandali». Non solo: «il calcio per noi non è neanche spettacolo. Per noi italiani il calcio è uno strumento di rivendicazione sociale per metterci al pari con le altre nazioni. E allora, ecco che ci mettiamo quello che sappiamo metterci: furbizia e arte d’arrangiarsi. E questo di certo non ci fa crescere...». E ancora: «Nei nostri club troppo spesso non sono importanti il lavoro, l’impegno e la competenza, ma soltanto i soldi: si ingaggiano i giocatori più costosi pensando che ciò sia sufficiente per conquistare i successi». Eppure... Eppure la storia racconta altro. «Le squadre più grandi di questi ultimi decenni sono state tre - ricorda allora l’Arrigo -: l’Ajax, il Milan (il suo Milan, ndr) e il Barcellona di oggi. Ebbene, pensateci: queste squadre hanno non poco in comune, a iniziare dal fatto almeno il 50% dei giocatori provenienti dal vivaio e comunque l’essere composti in larghissima maggioranza da giocatori nazionali. Il grande Ajax era per il 90% olandese, il mio Milan aveva 18 italiani e tre olandesi, il Barcellona ha una larga maggioranza di spagnoli. E allora investiamo nei settori giovanili, ma con ragazzi prodotti dalla nostra terra. L’Inter sta giocando il torneo di Viareggio con una formazione nella quale i 7/11 sono stranieri, l’Udinese sta svolgendo un lavoro straordinario ma scegliendo i ragazzini soprattutto all’estero: così si tradisce la nostra storia».

E poi, lo sguardo all’oggi. Capello si è dimesso da ct dell’Inghilterra? «Sono dispiaciuto per quanto accaduto perché Fabio è un grande allenatore e un grande personaggio. Però talvolta una scelta così pè anche una liberazione...». Come fu per lei al Milan? «Nel ’91 lasciai il Milan perché ero stanco: mi sembrava di essere tornato bambino, quando piuttosto che andare a scuola avrei preferito andare a zappare nei campi». Come finirà la corsa scudetto? «Sono pagato dalla Federazione per fare il consulente tecnico, non l’indovino». Cosa cambia nel Milan senza Ibrahimovic? «Ibrahimovic è uno dei più grandi solisti del calcio mondiale, il che ha tanti vantaggi ma anche tanti svantaggi. Nel Milan basato tutto sulle individualità, l’assenza di Ibra è un problema. Nel Barcellona lo sarebbe molto meno...». Quali sono le squadre italiane di oggi che le piacciono di più? «La Juventus di Conte e il Pescara di Zeman: c’è armonia nel loro gioco».

Un’ultima domanda: quale è il ricordo più bello della sua carriera? «Sono due, anche se molti simili l’uno all’altro. Quando a Parma arrivai secondo in serie B e fui portato in trionfo e quando al Milan arrivai secondo nella corsa scudetto e fui portato in trionfo: in quelle occasioni capii che, in un paese in cui conta solo il risultato, avevo fatto qualcosa di importante».

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