Un canestro e una carrozzina Enrico è tornato a giocare

TRIESTE. Il canestro è sempre lì. Eppure, visto da qui, sembra un po’ più alto, un po’ più lontano. Qualche decina di centimetri appena. E sei anni di vita. E qualche mucchietto di sogni da ragazzo accantonati.
Enrico, ai tempi delle giovanili, giocava contro Ruzzier e Tonut. Ci sapeva fare, Enrico Ambrosetti della Libertas. Questione di passione e, magari, di dinastia. Una madre - Sabrina Colomban - dignitosissima giocatrice in serie A, un nonno appassionato di basket che, prendendosi cura del ricreatorio di Servola, quei quattro tiri fuori orario te li lasciava pure fare.
Giocava bene a basket, Enrico. Finchè, a 16 anni, quando pensi che la vita ti possa regalare solamente il meglio, arriva un dannato pomeriggio che ti cambia la vita. Un contatto di gioco, un episodio apparentemente stupido. Esami medici. Ma, intanto, affiora anche un dolore sospetto. Cominciano altri controlli, ulteriori verifiche.
«Non stavo bene. Un medico mi diagnosticò un’infezione. Io e la mia famiglia continuammo a cercare la verità. La scoprimmo e aveva un nome che, beffardamente, ricordava quello di un campione di basket, anche se era solo una coincidenza. Sarcoma di Ewing. Un tumore osseo. Iniziarono i viaggi a Firenze, i cicli di chemioterapia. Vita sociale dimezzata. Mezz’ora d’aria all’aperto e guai a prendersi un raffreddore. Poco tempo per gli amici, studi interrotti. Però non volevo abbattermi. Incalzavo la mia famiglia: “Cominciamo la chemio. Prima partiamo e prima la finiamo”».
«Cicli sempre più pesanti. Speravamo che potessero servire. Un giorno i medici mi hanno messo di fronte alla realtà: l’operazione era indispensabile. Bisognava intervenire sulla gamba destra per salvare il salvabile e scongiurare la metastasi».
Un anno di calvario, dal marzo al dicembre 2010. Anzi, al 30 dicembre 2010, come precisa Enrico. «Due giorni dopo sarebbe cominciato un nuovo anno. Per me stava invece per cominciare una nuova vita».
«Quando ho provato a muovermi con la protesi mi sembrava di essere ritornato bambino. Ero insicuro, a casa per spostarmi cercavo dei punti di appoggio. Ogni passo era una piccola conquista». Sorride, Enrico. Nel suo racconto non affiorano tristezza nè una rabbia che sarebbe la comprensibile figlia di inevitabili rinunce. Sorride e traspare solo la serenità della normalità.
Ha 23 anni, adesso. E la stessa, prepotente, fame di basket. «In questi anni quante volte mi sono ritrovato a pensare: da ragazzo giocavo contro Tonut e Ruzzier e adesso li vedo in serie A. Campioni. No, non provo invidia. Meritano quei risultati. Ma quante volte mi sono chiesto se...»
...Se non fosse successo. Se avesse potuto continuare a liberare i suoi 16 anni su un parquet. Se...«Troppo forte l’amore per la pallacanestro. Ho provato ad allenare. Starenergy, poi Interclub. Li ringrazio per avermi dato quell’opportunità. Ma la testa, a dispetto dell’evidenza, contro ogni logica, era rimasta quella del giocatore».
Estate scorsa. Qualcuno butta là: a Gradisca c’è una squadra di basket in carrozzina. Magari, se vuoi...«Mi sono presentato in jeans e maglietta. Ho raccontato la mia storia, l’allenatore mi ha indicato una carrozzina, mi ci ha fatto sedere e mi ha consegnato un pallone. “Vuoi provare?”. Non aspettavo altro. Il regalo più bello. Finalmente potevo tornare a giocare».
Sospesa l’attività del club gradiscano per un breve periodo di ferie, Enrico ha chiesto di portarsi a Trieste la carrozzina per allenarsi da solo. «Ero a Servola. Lo stesso campo dove da ragazzo tiravo per ore sotto gli occhi di mamma e con i consigli di Franco Pozzecco. Ero sulla carrozzina e cercavo di inquadrare il canestro. Dall’altra parte del campo c’era proprio Pozzecco insieme a un ragazzo. Si è avvicinato. Dopo pochi minuti era come se sette anni non fossero mai trascorsi. È stato come se avessimo ripreso l’allenamento della sera prima, lì dove l’avevamo interrotto. “Imposta il tiro, attento a come prendi posizione”». Quei tre metri e 5 centimetri non sono mai sembrati così alti. «Dalla carrozzina il canestro sembra irraggiungibile. Ma non potevo rinunciare. Non potevo permetterlo. Stavo per ritrovare il mio mondo».
Enrico è il più giovane della Castelvecchio NordEst Gradisca. Gioca in serie B e nel torneo transfrontaliero. Continua ad allenarsi per rincorrere un nuovo sogno. «Un giorno mi piacerebbe giocare in serie A. Il livello è alto e io ho appena cominciato, ma voglio provarci. La “mia” A. E, magari, la Nazionale. Sognare, in fondo, non costa niente».
E sognare, per Enrico, è un diritto.
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