Appello sul caso Rasman: la famiglia chiede 7 milioni

TRIESTE Albina Veliscek e Duilio e Giuliana Rasman - mamma, papà e sorella di Riccardo Rasman - tornano a Foro Ulpiano reclamando nuova giustizia a distanza di undici mesi dalla sentenza civile di primo grado che aveva riconosciuto loro un milione e 200mila euro di risarcimento. Ne pretendono altri sette, per arrivare agli otto milioni chiesti (ma non ottenuti) proprio in primo grado. E lo Stato, conseguentemente, impugna a sua volta quella sentenza, sostenendo che il milione e 200mila va rivisto sì, ma al ribasso.

L’ultima parola ora (ammesso che lo sia, visto che la legge concede tre gradi di giudizio fino alla Cassazione) tocca alla Corte d’Appello di Trieste, che per intanto si è riservata di decidere sulla richiesta della famiglia Rasman di riaprire l’istruttoria in secondo grado risentendo una serie di testimoni tra cui il medico del 118 che constatò sul posto il decesso del giovane, secondo cui a intervenire quella sera sarebbero dovuti essere i servizi psichiatrici, prima che i poliziotti. Questa e altre considerazioni sono tra parentesi già note alle cronache facendo parte di un servizio andato in onda su “Le iene”.
L’udienza introduttiva del processo di secondo grado - riguardante appunto esclusivamente l’aspetto risarcitorio - è andata in scena l’altra mattina davanti alla Seconda sezione civile della Corte d’Appello di Foro Ulpiano composta dai giudici Salvatore Daidone (presidente) e Maria Antonietta Chiriacò (a latere) e dal giudice onorario Arrigo De Pauli (già presidente del Tribunale di Trieste e in questo caso relatore della causa), alla presenza dei genitori e della sorella di Rasman, assistiti dagli avvocati Claudio Defilippi e Giovanni Di Lullo, e dei due legali di controparte, l’avvocato dello Stato Marco Meloni per il Ministero dell’Interno e l’avvocato Paolo Pacileo per i tre agenti Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giovanni De Biasi, già condannati in sede penale a sei mesi per omicidio colposo.
Riccardo Rasman morì come è noto praticamente soffocato a 34 anni il 27 ottobre 2006 dopo essere stato ammanettato e immobilizzato dai tre poliziotti nella sua casa di Borgo San Sergio in seguito a una collutazione dopo che qualcuno aveva chiamato il 113 raccontando che lo stesso Rasman stava lanciando petardi.
Quello dell’altra mattina è stato il primo atto di una causa civile d’appello tutto sommato scontata, posto che già dopo la sentenza del giudice Giulia Spadaro di primavera 2015 i famigliari di Rasman e i loro difensori avevano espresso la propria insoddisfazione per la quantificazione del risarcimento in un milione e 200mila euro appunto, tanto che lo scorso autunno avevano annunciato come imminente la presentazione del ricorso sfociato ora nel contenzioso in Corte d’Appello.
I sette milioni di differenza stanno sostanzialmente nella richiesta che venga anzitutto riconosciuto il cosiddetto “danno tanatologico” oltre a quelli morale e patrimoniale: semplificando, il danno da morte “consapevole” trasmissibile agli eredi. La replica del difensore del Viminale, che ha presentato un appello incidentale, conseguente, è fondata invece sul riconoscimento del concorso di colpa, sia perché i poliziotti dopo l’irruzione si erano trovati davanti a un uomo forte che si era scagliato contro di loro sia perché Rasman avrebbe dovuto prendere delle medicine a rilascio graduale prescritte dai servizi psichiatrici e chi gli era vicino avrebbe dovuto dargliele. Morale: ci sarebbero gli estremi di un concorso di colpa tali da far scendere il milione e 200mila euro del primo grado.
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