Panaro spiega l’economia del mare a Trieste: «Ecco come sta cambiando il ruolo dei porti europei e italiani»
Al forum della Blue Economy di Trieste l’intervento di Alessandro Panaro del centro studi Srm: il blocco di Suez è costato 7 miliardi: «Gli armatori puntano su flotte sempre più efficienti e affidabili: in orario il 65% delle navi»

Il modello Trieste di economia del mare vale 3,4 miliardi di euro con un porto primo in Europa per tasso di crescita dello “shortsea shipping”: il dato è stato diffuso lunedì a Trieste da Alessandro Panaro, capo servizio dell’Area di Ricerca Maritime & Energy di Srm (Gruppo Intesa Sanpaolo) al Forum della Blue Economy organizzato da Nord Est Multimedia (Nem) sull’economia del mare:
«L’Europa», ha chiarito l’analista, «vive una fase in cui dazi e choc geopolitici, transizione energetica, nuove politiche industriali e riassetto delle rotte globali stanno modificando ruolo e peso dei porti. Basti pensare che il blocco del canale di Suez, a causa degli attacchi Houti, è costato nel 2024 al mondo armatoriale 7 miliardi di minori entrate. In questo scenario difficile Trieste, grazie al suo modello intermodale e allo sviluppo dei traffici ro-ro, si è difeso bene anche perché è riuscito ad attirare investimenti esteri».
Nonostante la crisi di Suez (che pare si stia sbloccando in queste ore) il Mediterraneo, sempre più affollato di navi, sta diventando uno snodo strategico:
«I porti italiani – ha detto Panaro – rappresentano oggi il 15% della movimentazione portuale europea e addirittura il 21% della capacità che entra nel Mediterraneo. Questo significa che oltre un quinto del traffico merci passa attraverso infrastrutture e corridoi legati al nostro Paese. È un risultato che contrasta con la narrazione di un’Europa marginale rispetto alle catene globali del valore».
Intanto si consolidano le reti regionali, si sperimentano nuovi corridoi multimodali come quelli attraverso l’Arabia Saudita e la più difficile Rotta artica aperta dal climate change che sta scegliendo i ghiacci.
Anche la transizione energetica accentua le spinte al cambiamento. I porti europei stanno abbandonando il carbone e progressivamente ricalibrano i traffici verso nuovi segmenti come Lng e biocarburanti. Anche questo mette sotto pressione la logistica, chiamata a conciliare sostenibilità, rapidità e costi. Gli armatori, dal canto loro, stanno investendo in flotte più efficienti e soprattutto in affidabilità: oggi il 65% delle navi arriva in orario, nonostante i percorsi più lunghi attorno al Capo di Buona Speranza.
Un elemento chiave della trasformazione è il riposizionamento della Cina. Paradossalmente, mentre assistiamo al disaccoppiamento commerciale con gli Stati Uniti (-17% di export cinese verso Washington), Pechino continua a rafforzare la sua presenza infrastrutturale nel Mediterraneo: il 15% dei nuovi investimenti cinesi nel mondo nel 2024 è concentrato su porti, retroporti e terminal: «L’attenzione di Pechino per il Mediterraneo e i porti del Nord Est resta altissima».
Nel Mediterraneo orientale esplodono i collegamenti infraregionali: «Nei prossimi cinque anni il traffico container dovrebbe crescere del 14%, con picchi nei porti che hanno investito in digitalizzazione e integrazione logistica».
A pesare resta tuttavia il nodo dei costi e della competitività: «La tassazione sulle emissioni di Co2 (Ets) – passata al 70% nel 2024 e al 100% dal 2025 – rappresenta un cambio strutturale che potrebbe penalizzare alcuni scali europei, ma anche stimolare investimenti in tecnologie pulite e nuovi carburanti. Nel complesso, si stima che inefficienze burocratiche e ritardi nelle catene logistiche costino all’Italia 6 miliardi di euro l’anno». Un peso enorme, soprattutto considerando che tra Nord Adriatico e Nord Est si concentrano ormai interi distretti produttivi che vivono di export e logistica integrata. —
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