Dall'assurdità del male all'urgenza dell'impegno, cosa resta del viaggio ad Auschwitz

CRACOVIA Il memobus si è appena lasciato alle spalle la pianura morava per entrare in quella dell’Austria settentrionale, puntellata da moderni mulini a vento che si stagliano, altissimi e grigi, contro la volta del cielo dello stesso colore. Polonia, Cechia, Austria, Slovenia, Italia: dopo aver attraversato mezza Europa stasera - 15 marzo - rientreremo a Trieste, ripercorrendo a ritroso l’itinerario compiuto lunedì notte.
I due estremi del viaggio sono stati il monumento nazionale dell’ex lager nazista della Risiera di San Sabba, unico dotato di forno crematorio in territorio italiano, e il complesso di Auschwitz-Birkenau. Osservando il succedersi delle nazioni attraverso il finestrino della corriera vengono in mente le parole scritte da Stefan Zweig nella sua autobiografia del 1942, Il mondo di ieri: “Non si temevano ricadute barbariche come le guerre tra popoli europei, così come non si credeva più alle streghe e ai fantasmi; i nostri padri erano tenacemente compenetrati dalla fede della irresistibile forza conciliatrice della tolleranza. Lealmente credevano che i confini e le divergenze esistenti fra le nazioni o le confessioni religiose avrebbero finito per sciogliersi in un comune senso di umanità, concedendo così a tutti la pace e la sicurezza, i beni supremi”.

I due conflitti mondiali hanno reso vero il contrario. Per Auschwitz, nello specifico, vale il monito di Primo Levi: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo”. Attorno a questo nucleo tematico si sono concentrate le riflessioni delle studentesse e degli studenti che stanno partecipando al viaggio della memoria, ormai quasi al termine. Chi scrive ha una visione del mondo caratterizzata da un forte pessimismo antropologico. È vero l’opposto per uno dei docenti che ci accompagnano, il professor Matteo Segatto del liceo Galilei, il quale pensa sempre che le cose potrebbero anche non andare per il peggio. In barba alla legge di Murphy. Adesso, dopo qualche giorno, è chiaro il perché: stando quotidianamente a contatto con chi oggi ha 18 anni, infatti, è impossibile non cominciare a nutrire sentimenti di speranza per il futuro.
Queste ragazze e questi ragazzi sono belle persone: due parole, queste ultime, che potrebbero apparire banali ma che invece sono state ponderatissime, prima di essere scelte. Hanno infatti il peso di un macigno, talmente poche sono le volte in cui sono vere. Mentre queste righe vengono buttate giù, peraltro, i loro coetanei assieme a Greta Thunberg si stanno riversando nelle piazze di tutto il pianeta per chiedere che non sia cancellato il loro diritto al futuro. Una coincidenza che Carl Gustav Jung avrebbe definito significativa.
Ma torniamo al viaggio. Stamattina prima della partenza un apposito momento è stato dedicato alla riflessione. Gli organizzatori, e cioè lo staff dell’Associazione 4704 composto da Alessia Tamer, Štefan Čok, Marco Reglia, Ruben Vuaran e Alessandro Cattunar, hanno chiesto a ragazze e ragazzi di condividere le impressioni e le emozioni provate il giorno prima, durante la visita all’ex campo di Auschwitz. Questo è stato il compimento di un percorso di preparazione iniziato già prima del viaggio. Arrivati alla sua fine, gli studenti si sono chiesti che cosa li ha spinti a partecipare all’iniziativa; che cosa ha significato per loro. Ma soprattutto che cosa si porteranno a casa. Si sono risposti che, innanzitutto, si impegneranno a dare il proprio contributo affinché ciò che è stato non riaccada mai più.
I liceali sono stati preparati alla rielaborazione dei loro pensieri dal già citato professor Segatto. “Il problema che ci mette davanti Auschwitz è di natura filosofica – ha detto loro il docente –. Si tratta del problema del male. Ad Auschwitz e negli altri campi nazisti la morte di milioni di persone è stata lucidamente pianificata. Lo sterminio si è così fatto industriale. Ciò ha segnato un prima e un dopo nella storia europea e non solo. Il tutto è avvenuto in maniera intenzionale. Ce lo insegna Hannah Arendt ne La banalità del male, e cioè il reportage dal processo Eichmann, avvenuto negli anni Sessanta in Israele. Il responsabile logistico dei treni della morte non solo è risultato sanissimo a tutte le perizie psichiatriche eseguite dopo la sua cattura ma, racconta Arendt, era pure un uomo banale”.
Jasmine Trombetta, della classe 5 A del liceo Galilei, aveva deciso di aderire all’iniziativa perché l’empatia che provava nello studiare la storia della Shoah era tale da farla sentire in colpa. Pur sapendo di non avere responsabilità, nella storia accaduta decine di anni prima della sua nascita. Era partita in cerca di risposte, insomma. Alla fine del viaggio se n’è data più di una. “Ho capito che non ha senso che io mi senta in colpa, né che abbia paura – spiega la giovane donna –. Invece è meglio utilizzare le energie che ci sono dentro a quei sentimenti per impegnarmi, nel mio piccolo, a informare gli altri”. “Per me – prosegue Jasmine – il momento più toccante è stato ieri, al termine della visita a Birkenau. Ci è stato chiesto dagli organizzatori di prenderci cinque minuti di riflessione, da soli con noi stessi. In quei minuti dovevamo pensare a un messaggio da scrivere su di un foglietto, che poi avremmo lasciato sul binario che arriva fin dentro il campo. Sopra il pezzo di carta, un sasso: proprio come nell’usanza ebraica. Mentre riflettevo e mi chiedevo che cosa scrivere, mi sono passate davanti agli occhi le scene di tutto quello che avevo vissuto negli ultimi giorni. Prima, infatti, eravamo costantemente impegnati a recepire stimoli e informazioni; non ero ancora riuscita a prendere consapevolezza di tutto quello che avevo appena visto. Mentre posavo il sasso sulla rotaia mi sono commossa”.
Serena Ralza, all’ultimo anno del liceo classico Carducci-Dante, afferma: “Prima di partire pensavo di conoscere la storia dei campi nazisti e di aver compreso pienamente la loro gravità. In seguito ho capito che non era così. Mentre la si studia, la Shoah può sembrare un evento tra i molti che sono riportati sul manuale di storia. Soprattutto, non ci si rende conto di quanto è stata macabra. Dai libri di scuola mi ero fatta un’idea astratta di ciò che è stato. Visitando il sito ho invece scoperto una serie di innumerevoli dettagli, macabri appunto, che mai avrei potuto immaginare. La vera consapevolezza di tutto ciò che avevo appena visto mi è arrivata, di colpo, non all’interno dei campi bensì dopo esserne uscita, circa dieci minuti dopo”.

“Uno dei particolari che più mi ha colpita è una foto esposta nell’ultimo edificio visitato a Birkenau, un tempo luogo della registrazione dei prigionieri e quindi del taglio dei capelli, dell’imposizione dei tatuaggi e così via – continua Serena –. Della loro disumanizzazione, per dirla con un’unica parola. Lì oggi c’è una mostra permanente, con le fotografie ritrovate nelle valigie degli internati. Quella che mi è rimasta più impressa ritrae quattro amici al mare, sorridenti: un’immagine molto felice. Portavano già al braccio la fascia con la stella di David e tuttavia non immaginavano che nel giro di pochi anni avrebbero, in un certo senso, smesso di essere persone”.
Chiosa la ragazza: “Ciò che mi turba, più ancora che la loro morte, è tutto ciò che l’ha preceduta. La vita nelle baracche. Il fatto che l’unico discrimine tra l’essere assassinati subito e il poter sopravvivere ancora un po’ stava nell’essere considerati abili al lavoro, e cioè sfruttati. Non ho trovato risposte ma, al contrario, adesso ho più domande di prima. Mi lascia inoltre sgomenta il fatto che le vittime hanno subito tutto quello che hanno subito per il solo fatto di essere ebrei. È difficile cogliere pienamente la portata di questa frase. Mi risulta faticoso concepire che qualcuno odiasse qualcun altro, adducendo come giustificazione un pretesto banale come quello razziale”.
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