«È come cancellare la memoria della città»

Amara Maria Luisa de Banfield Mosterts, sorella di Raffaello «A Trieste questo nome non è ricordato in alcuna maniera»

«Sono esterefatta. Basita. Incredula. Impressionata». Maria Luisa de Banfield Mosterts, sorella di Falello (barone Raffaello de Banfield Tripcovich) scomparso nel 2008, «l'ultima sopravvissuta» della famiglia, non vuole credere alla notizia dell’abbattimento della Sala Tripcovich. «Mi fa impressione. È sempre Dipiazza che vuole buttare giù la sala. È come cancellare la memoria della città. È l’unica cosa rimasta a Trieste a ricordare la compagna di navigazione fondata nel 1895 da mio nonno Diodato. Dei Tripcovich non c’è più nessuno: io sono figlia di una Tripcovich. E io sono l’ultima a portare il nome de Banfield che perlomeno ha un’associazione con questo nome». Buttare giù la Sala Tripcovich è come cancellarne l’unico segno rimasto a Trieste, insomma. «A Trieste Tripcovich non è ricordato in nessuna maniera. È stato un nome importante per la città. Non c’è una viuzza, un qualche cosa che porti il nome Tripcovich. Solo questa sala. Non entro nel discorso sulla bellezza dell’edificio che magari non è una meraviglia. Ma resta pur sempre un’opera di Nordio anche se non delle migliori».

Nel 2009 Maria Luisa de Banfield, nel momento in cui il Comune voleva strapparla al Verdi, scrisse una lettera aperta. «Una mattina del giugno del 1992 mio fratello sofferente, dall’ospedale di Parigi dove era ricoverato dopo un grave incidente, mi chiamò scoraggiato e in preda a una grande depressione. Da Trieste partii allarmata e dopo un lungo viaggio allucinante, arrivata a Parigi e direttamente all’ospedale, trovai inaspettatamente Raffaello raggiante. Aveva sul letto i disegni in pianta della futura Sala Tripcovich. Come già dissi durante la bellissima cerimonia dell’anno scorso (giugno 2008, ndr), allorché col maestro Uto Ughi (c’era pure il sindaco Dipiazza, ndr) scoprimmo la targa col nome di Raffaello all’entrata della Sala Tripcovich, quel giorno a Parigi egli commosso mi confessò quanto ognuno sogna l’immortalità e per lui questa la si sarebbe potuta raggiungere con il nome della sua famiglia per sempre legata alla propria città attraverso la musica e a vantaggio del suo teatro dell’opera. Era nato, cresciuto e invecchiato in seno al suo Teatro Verdi davanti al quale l’ultimo anno della sua vita, inerme sulla sedia a rotelle, il vecchio incantatore di serpenti si faceva portare ogni giorno, e se non si stancava troppo fino alla Sala Tripcovich, dove si fermava ammirando quello che lui aveva chiamato “il canto del cigno della Tripcovich”». La lettera così si concludeva: «Nella speranza che la Sala Tripcovich rimanga un centro di vera cultura musicale cittadina come l’aveva suggerita Giorgio Vidusso, che Franco Malgrande e Andrea Viotti sono riusciti a realizzare, e che Raffaello de Banfield sognò che fosse il canto del cigno della sua onorata famiglia, vi saluta Maria Luisa de Banfield Mosterts». (fa.do.)

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