Addio all’albanese Fatos, con un camion abbatté il regime comunista

È deceduto a Trieste, a 65 anni, dove si era rifugiato con la famiglia: nel 1990 il suo gesto aveva innescato l’assalto alle ambasciate

Gianpaolo Sarti
Fatos Kaceli in una immagine d'epoca
Fatos Kaceli in una immagine d'epoca

Chissà se i libri di storia che si studiano a scuola e all’università un giorno gli dedicheranno un capitolo, un paragrafo o perlomeno qualche riga. Perché sì, merita di essere ricordato Fatos Kaceli, l’albanese che il 23 giugno 1990 aveva abbattuto il cancello dell’ambasciata italiana a Tirana, in via Labinoti, a bordo di un camion Skoda. Con lui c’erano altri cinque amici, Gëzim, Burhan, Luli, Ilir e Miri. Fatos guidava. Tutti, poi, avevano chiesto protezione e asilo.

Quello di Fatos e dei suoi compagni non fu un attentato, ma un gesto sovversivo che contribuì ad assestare la spallata finale al regime comunista.

Dopo quell’assalto in camion, a suo modo eroico o comunque coraggioso, ne seguirono altri – in massa – alle ambasciate straniere (il giorno dopo toccò a quella tedesca), ad opera di tutti quegli albanesi che desideravano libertà. Fatos Kaceli fu il primo: «Ingranai la marcia, accelerai... non potevamo più tornare indietro. Accorsero i poliziotti albanesi, una guardia si infilò addirittura nel cortile e aveva quasi afferrato uno di noi quando dall’edificio uscirono gli italiani che ci presero e ci tirarono nella palazzina». E così dopo gli assalti alle altre ambasciate iniziarono anche le migrazioni, gli sbarchi.

Fatos Kaceli è morto in questi giorni per una malattia. È spirato a Trieste, città in cui ha vissuto dopo la fuga dall’Albania da rifugiato politico. Kaceli è stato tra i primi profughi ad arrivare in Italia: a Cuneo, dopo lo sbarco a Brindisi, e quindi qui, nel capoluogo del Friuli Venezia Giulia, dove ha continuato a fare il camionista e il gruista in porto.

Quel suo gesto di trentacinque anni fa è stato raccontato dal giornalista della Rai Antonio Caiazza, profondo conoscitore dell’Albania, nel libro-inchiesta “In alto mare” uscito nel marzo 2008 (Instar Libri). Il giornalista, all’epoca, era riuscito a risalire a questa figura in qualche modo cruciale per le vicende del “Paese delle aquile”, come si dice, e a intervistarla. Lo aveva rintracciato in una locanda del porto, a Trieste, e lo aveva convinto a parlare di sé. Lasciando così una memoria scritta e documentata di quest’uomo e dei fatti di cui si era reso protagonista negli ultimi rantoli del regime. Altrimenti, forse, non ce ne sarebbe traccia.

Il capitolo che Caiazza, nella sua indagine, dedica a Kaceli si intitola proprio “Il camionista che abbatté il regime”. «Volevamo fare qualcosa per uscire da lì», racconta Kaceli nel libro. «Eravamo giovani. Non ce la facevamo più. In Albania non morivamo di fame, io guadagnavo anche bene con le trasferte che facevo con il camion. A Tirana poi stavamo molto meglio che nel resto del Paese. Quello che ci mancava era solo la libertà».

Kaceli e i suoi amici avevano scelto l’ambasciata italiana «perché amavamo l’Italia», osserva il camionista in uno dei passaggi del capitolo. «Tra amici fidati non parlavamo d’altro: come uscire. I confini erano pericolosi, le guardie sparavano e ammazzavano. L’unica soluzione era entrare in un’ambasciata». E l’Italia «era il Paese che per noi significava di più, era il mondo. Pensavamo di conoscerlo perché avevamo guardato anni e anni di Rai. Poi eravamo sicuri che se fossimo riusciti a entrare, gli italiani non ci avrebbero consegnati alla polizia...».

Nei mesi successivi Kaceli sarebbe stato raggiunto in Italia dalla moglie. Di lì a poco la coppia avrebbe avuto un figlio, Alen, iniziando a costruire una nuova vita. «Fatos era un uomo semplice – ricorda la sorella, Irma – ha amato questo Paese come l’Albania. E ha amato Trieste». «Nel ’90 – ripercorre Caiazza – il regime era già morente, ma mancava uno schiocco delle dita, un atto coraggioso. A volte la Storia incarica le persone qualunque».

 

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