“Guerra” della navetta, Regione sconfitta

Quei viaggi quotidiani sulla navetta regionale le sono costati 6 mesi di sospensione, stipendi non versati e addirittura un’indagine penale della Procura di Trieste per peculato, peraltro subito archiviata. Ma la sua battaglia giudiziaria ora l’ha vinta, anche se solo al primo round visto che la Regione ha impugnato la sentenza. È la storia, per certi versi kafkiana, della triestina Silvana Segalla, dipendente regionale che nel novembre del 2011 era stata trasferita dalla sede della Struttura periferica del Servizio caccia, risorse ittiche e biodiversità alla Direzione centrale, che si trova a Udine.
Nel febbraio del 2019 l’Ufficio procedimenti disciplinari le aveva contestato l’improprio e reiterato utilizzo del servizio navetta con autista (capienza 8 posti e collegamenti da piazza Unità e piazza Oberdan) istituito per il trasporto dei dipendenti fra le sedi di Trieste e Udine (via Sabbadini) «che debbano avvenire per ragioni lavorative». Violata, secondo la Regione, la norma in base alla quale «il dipendente utilizza i mezzi di trasporto dell’amministrazione solo per lo svolgimento dei compiti d’ufficio». Non un servizio per “semplici” pendolari, insomma.
A nulla erano valse le argomentazioni difensive in sede di audizione: era scattata la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio per 6 mesi, con decurtazione dello stipendio, ritenendo che avesse «gravemente violato il divieto di fare uso di beni e servizi, al fine di perseguire interessi personali».
Segalla si è rivolta al giudice del lavoro di Udine, impugnando la sanzione. Nel ricorso gli avvocati Roberto Mete e Massimiliano Sinacori hanno sottolineato anzitutto che la Regione, nel comunicare l’attivazione del servizio nel gennaio 2017, non aveva individuato «una categoria specifica di soggetti che avrebbero potuto usufruirne in via esclusiva, lasciando intendere che l’utilizzo fosse consentito a tutti i dipendenti». Poiché Segalla, residente a Trieste, era interessata si era rivolta al coordinatore del servizio «il quale – si evidenzia nel ricorso – le confermava che avrebbe potuto utilizzarlo per il tragitto quotidiano Trieste-Udine e Udine-Trieste in quanto rientrava senz’altro tra i trasferimenti per ragioni d’ufficio e, in ogni caso, non era escluso».
Il dubbio aveva cominciato a prendere forma nel 2018, allorché uno dei referenti per la prenotazione del servizio l’aveva contattata via mail lasciando intendere che l’utilizzo fosse da escludere per tipologie di trasferimento come quella dei pendolari, ma aggiungendo anche di ritenere necessaria una precisazione, da parte della Direzione Generale, su chi effettivamente potesse usufruirne. «Di fatto – affermano i legali –, l’amministrazione regionale, perfettamente a conoscenza delle modalità con cui lei utilizzava il servizio, non ha mai censurato alcunché, né fornito indicazioni più dettagliate sulle modalità di utilizzo». Eppure, a distanza di quattro mesi da quella mail, a Segalla è stata comunicata la contestazione disciplinare.
«L’amministrazione non le ha mai negato formalmente (e nemmeno informalmente) la possibilità di utilizzare il servizio, rafforzando in lei la convinzione di comportarsi in modo pienamente lecito – hanno ribadito Mete e Sinacori –. Non è stato quantificato alcun onere o danno per la condotta di Segalla che non ha mai viaggiato da sola e in ogni caso le navette, agli orari prestabiliti, partivano dalle due sedi anche vuote».
Il ricorso della dipendente è stato accolto. «È mancata da parte dell’amministrazione – si legge nella sentenza del giudice Fabio Luongo – una chiara e trasparente fissazione delle regole di utilizzo del servizio» e tale situazione di incertezza ha avuto «diretta incidenza sulla buona fede della lavoratrice, precludendo così, di fatto, ogni possibilità di muovere qualsivoglia rimprovero di carattere disciplinare». Per il Tribunale risulta provato che Segalla «lungi dall’infiltrarsi con artifici per “scroccare” passaggi abusivi, ha sempre meticolosamente formulato esplicita domanda al servizio competente, ricevendo l’assenso. È lecito ritenere che, in Regione, le condizioni di effettivo utilizzo fossero tutt’altro che chiare, rendendo ancor più fondata la convinzione della ricorrente di esercitare in perfetta buona fede una sua legittima facoltà e, comunque, di non contravvenire ad alcun espresso divieto».
Il giudice stigmatizza il fatto che la Regione non abbia fornito delucidazioni: «O il servizio era poco utilizzato – scrive Luongo – e quindi di scarsa utilità, o i colleghi della ricorrente, pur vedendosela pressoché costantemente a bordo, non avevano avuto mai nulla da ridire proprio perché anche loro non avevano sentore che si stesse consumando un utilizzo abusivo». Il giudice afferma quindi che «mancano validi presupposti» per la sanzione. Annullata la sospensione, la Regione è stata condannata a pagare le retribuzioni non versate, oltre agli interessi, e le spese di lite (4.700 euro) in favore della dipendente. —
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