I tedeschi progettavano a Verdun di dissanguare l’esercito francese

Nella zona di Aubange, la tappa successiva a Virton nella Vallonia belga, accadono spesso fatti di cronaca spiacevoli. «Qualche tempo fa, soprattutto nella zona del confine con il Lussemburgo, si sono verificate alcune sparatorie», mi racconta Saskia Veerenooghe, giovane giornalista belga che assieme al marito mi accompagna verso la pista ciclabile che seguirò per andare nel Granducato.
«Il traffico di stupefacenti in questa zona è cresciuto negli anni. D’altronde il mercato lussemburghese dello “sballo”, un benessere diffuso e i tanti soldi a disposizione, sono alcune delle ragioni per le quali, sui giornali, capita di leggere notizie di cronaca nera riguardanti Aubange e dintorni».
Quando entro in Lussemburgo la sensazione è esattamente quella che si ha quando si è ancora giovani e si fissano le mappe di un atlante. Sappiamo che è messo nella lista dei paesi piccoli come Andorra e Liechtenstein, che la capitale ha lo stesso nome del paese e che le ultime tre lettere di Benelux provenivano da qua. Nient’altro. La prima Guerra Mondiale qui fu un evento diverso. Il paese venne occupato militarmente dall’esercito tedesco per tutta la durata del conflitto, venendo così violata la sua neutralità. Per la Germania il paese era funzionale vista la vicinanza al fronte e la buona rete ferroviaria di cui disponeva. Durante la guerra, i tedeschi fecero capire che se i lussemburghesi avessero seguito gli ordini, di certo non avrebbero avuto problemi.
Ci resto una notte – ospite di una coppia di corregionali trasferitasi qua per lavoro, Martina Furlan (Trieste) e Alessandro Castellarin (Casarsa) – giusto il tempo di visitare da fuori perché chiuse, le casematte del Bock, complesso di gallerie che anche durante la Prima guerra mondiale ospitarono migliaia di persone.
La Mosella mi abbraccia il mattino seguente e mi porta in direzione Thionville, l’area di passaggio per ritornare a Verdun, via treno da Metz. La chiamano la tomba di Francia. Parlare di Verdun è evocare luoghi simbolo. Un viaggio sulla Grande Guerra senza Verdun non può venir definito tale. Ci resterò alla fine tre notti, decidendo all’ultimo di saltare la tappa di Metz per riuscire a concentrarmi di più su questo luogo dove, nei 300 giorni del 1916, morirono centinaia di migliaia di soldati, in quella che fu la più grande offensiva tedesca tra lo sfondamento della Marna nel 1914 e quella della primavera del 1918. A Verdun l’idea tedesca fu quella di dissanguare goccia per goccia l’esercito francese. Spostare l’attenzione su un luogo simbolo per la Francia significava infliggere sconfitte difficilmente digeribili. Dopo Sedan si era provveduto a realizzare un complesso di 19 forti tutti intorno a Verdun, così da rendere una ipotetica invasione tedesca praticamente impossibile.
Quando arrivo al Fort Douaumont diluvia. Il grigiore del cielo si fonde con il verde acceso delle colline dove le trincee rimangono cicatrici sul suolo di Francia. Il forte oggi è visitabile e basta dare un’occhiata al piazzale antistante per capire la portata di turisti che qui arrivano.
Gli alti comandi francesi avevano deciso di trasferire parte della guarnigione del forte lasciandoci così solamente una sessantina di soldati. Il forte, tecnicamente perfetto ma lasciato sguarnito, cadde il pomeriggio del 25 febbraio 1916. Quello che era stato uno dei simboli di Francia dopo la sconfitta di Sedan, fu preso praticamente senza colpo ferire. Lascio il forte quando decine e decine di soldati dell’esercito francese di oggi fanno visita al sito. C’è anche qualche statunitense. Ancora oggi il nome di Verdun rievoca un esempio di coraggio, di resistenza, di clamorosi errori e perdite inimmaginabili. Quando dal forte cammino verso l’Ossario di Douaumont la pioggia non concede tregua. All’Ossario ho appuntamento con Olivier Gerrard, direttore del sito.

«Verdun è un posto assolutamente unico. Non basta qualche ora per rendersi conto di ciò che accadde qui», mi confida durante l’intervista. Non bastano poche righe, in effetti. Alcuni villaggi intorno a Verdun sparirono per sempre, distrutti e mai ricostruiti. I numeri effettivi della battaglia sono ancora spaventosi. Il paesaggio attorno alle colline è calmo, dove il silenzio è l’unica dignità che la memoria concede. Salgo sulla torre dell’Ossario da dove comincio a fatica a mettere insieme i pezzi. Eccolo, il campo di battaglia è davanti, a sinistra, a destra e alle mie spalle. Non c’è via di scampo. Verdun, 1916.
La persona che mi ospita si chiama Jean Paul, padre di Malik, con una ex moglie camerunense che li ha abbandonati. Forse Verdun è uno di quei posti nei quali durante il viaggio mi sono sentito più a casa. Il padre di Jean Paul si offre di accompagnarmi al cimitero americano Romagne Aux Montfaucon dove assieme visitiamo il memoriale.
È il D-Day. Si celebra il settantesimo anniversario e tutto il personale del cimitero è in Normandia per ricordare i caduti dello sbarco.
Alla fine della visita lui mi regala dei pezzi di granata ed una statuetta di terracotta originale, che veniva venduta dopo la guerra, per ricavare dei soldi da destinare alle cure dei mutilati di guerra. All’interno della statuetta c’è ancora la terra di Verdun Con essa tutto il sangue versato.
(6 - Segue. Le puntate precedenti sono state pubblicate il 20 e 27 maggio, 2 e 10 e 17 giugno)
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