«Magazzino 18, quella in foto è mia nonna»

Maria Antonia Marocchi l’ha riconosciuta: da Roma a Trieste per cercare altri ricordi tra le masserizie

Una fotografia scattata nel marzo dello scorso anno all’interno del Magazzino 18 del Porto Vecchio è al centro di questa storia e di questo articolo. L’immagine pubblicata dal Piccolo dodici mesi fa mostra parzialmente, coperto da altre foto, il ritratto di Mary Filippi, morta a Capodistria nel 1943. La nipote, Maria Antonia Marocchi che abita a Monterotondo in provincia di Roma, ha visto di recente la pagina del quotidiano, ha letto l’articolo e ha riconosciuto nell’immagine il ritratto della nonna. Per questo motivo ha deciso di venire a Trieste per visitare il magazzino in cui sono dolorosamente conservate da anni e anni tante masserizie appartenute a profughi istriani, fiumani e dalmati. Oggi alle 10 entrerà in porto nell’ambito di una delle tante visite al Magazzino 18 organizzate a partire dallo scorso 11 febbraio dal direttore dell’Irci Piero Delbello.

«Quando ho visto sulla pagina il ritratto della nonna mi sono messa a piangere per la grande commozione ma anche per la gioia di questa testimonianza ritrovata. Subito dopo, assieme a mio marito, ho deciso di venire a Trieste per vedere e verificare se all’interno del magazzino sia conservato qualcosa d’altro che apparteneva alla mia famiglia. Ricordi, fotografie, forse una valigia o un quaderno», spiega la signora Maria Antonietta. Lei la nonna Mary non l’ha mai conosciuta. Ha solo visto alcune sue fotografie sopravvissute alla fuga dei suoi genitori da Capodistria. «Mio papà Serafino, mia mamma Margherita e quattro miei fratelli ancora bambini sono scappati di notte a bordo di una piccola barca per approdare a Trieste e alla libertà. Era il novembre del 1946 e io non ero ancora nata. Sarei venuta al mondo nel 1951 a Bologna dove papà, originario di Rotella in provincia di Ascoli Piceno, aveva trovato lavoro. Era un tecnico, un capocantiere ed era arrivato a Capodistria nel 1935 per partecipare alla realizzazione dell’acquedotto istriano. Lì aveva conosciuto mia mamma».

La signora Maria Antonietta racconta di questo incontro: fornisce dettagli, snocciola date, mette a fuoco tradizioni. Cerca in sintesi di ricostruire idealmente un mondo che sente proprio ma che la guerra, l’odio e le persecuzioni hanno spazzato via per sempre. «Nel 1935 mio papà, che lavorava per la Società italiana condotte d’acque, assistette a Capodistria a una processione. Era la festa del Corpus Domini e le bambine che si accingevano a ricevere la prima comunione si dirigevano verso il duomo. Al centro della processione c’era una ragazza vestita di bianco che simboleggiava la Madonna. Era bellissima e sorrideva. Mio padre si innamorò di quella ragazza, cercò di informarsi e in breve seppe che si chiamava Margherita e che viveva con la madre, la signora Mary. Suo padre era già morto prematuramente. I due giovani si fidanzarono e si sposarono il 7 febbraio 1937».

Al salvataggio della memoria di quell’epoca Maria Antonia Marocchi ha dedicato buona parte della propria vita. Ha scritto due libri sull’esodo istriano, ha parlato della tragedia delle foibe quando quasi nessuno in Italia conosceva la sorte subita da tanti altri italiani. È stata ospite di circoli culturali e di scuole pubbliche, di convegni e aule, ha contatto uomini politici e scrittori, sempre tesa a evitare che tanto dolore fosse progressivamente eroso dal fluire del tempo e dalle rimozioni furbesche. Lentamente, faticosamente la realtà è venuta in superficie e quella fotografia della nonna Mary conservata miracolosamente fra tante altre immagini, mobili, strumenti di lavoro, quadri devozionali all’interno del Magazzino 18 rappresenta idealmente il completamento del suo impegno civile. Una foto, una pagina di giornale, una storia. (c.e.)

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