Inutili gli sgomberi in Porto Vecchio: ai migranti va ridata la dignità

Non serviva una tragica morte per svelare un accampamento in pieno centro che offende la dignità. L’unica soluzione è creare un dormitorio pubblico temporaneo

Roberto Morelli
L’operazione di sgombero in Porto Vecchio a Trieste lo scorso 3 dicembre (foto Lasorte)
L’operazione di sgombero in Porto Vecchio a Trieste lo scorso 3 dicembre (foto Lasorte)

Se non facciamo nulla, continuerà così. A ogni sgombero dei migranti (oggi dal Porto Vecchio di Trieste, domani chissà), seguirà il nuovo flusso progressivo di arrivi. Finché la cosa diventerà troppo evidente: reti tranciate fra i magazzini, panni stesi tra barre rugginose, persone affacciate su ballatoi pericolanti, un mesto viavai di disperati a dissetarsi alla fontanella lungo il viale interno.

Ci vorranno tre o quattro mesi. A quel punto via con la nuova operazione, e avanti così. Prossimo sgombero programmabile: marzo 2026, prima di Pasqua. Poi forse gli interventi si intensificheranno, ché nella primavera del 2027 si voterà per il Comune.

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Ha senso? Nessuno. Non doveva esser necessaria la morte in solitudine di un disgraziato nel sudiciume (peraltro per cause da accertare, il che esige prudenza) per accendere l’ennesimo faro su un accampamento in pieno centro che offende la dignità, e quindi le coscienze di chi non si volta dall’altra parte. Perché il problema è rimasto lo stesso di anni fa e tale rimarrà in quelli futuri, se non lo affrontiamo con serietà e spazzando dal tavolo la montagna di demagogia che l’una e l’altra parte hanno accumulato. Sapendo a priori che la ricetta non esiste e che nessuna istituzione, da sola, può sciogliere un nodo epocale.

Proviamo allora a mettere in fila alcune considerazioni. La prima: stiamo affrontando con panico emergenziale un’emergenza che non è più tale. Il flusso di migranti dalla cosiddetta rotta balcanica, quella che culmina (anche) ai nostri confini, si è ridotto del 47% nei primi otto mesi del 2025, secondo l’agenzia europea Frontex, e probabilmente lo sarà ancor più con i dati di fine anno.

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È una tendenza in atto da tempo: rispetto ai 150 mila accessi del 2022, quelli del 2025 saranno circa di dodici volte inferiori. L’emergenza non c’è più, per ragioni internazionali su cui qui non divaghiamo.

Eppure non molto è cambiato: chiusa la vergogna del Silos, a Trieste la vergogna s’è spostata altrove in Porto Vecchio, solo un po’ più diffusa. Un domani, quando altri magazzini saranno sgomberati e sigillati, si sposterà ancora. Per mettervi fine, l’unica soluzione è creare un dormitorio pubblico temporaneo per i richiedenti asilo destinati al trasferimento in altre regioni, essendo palese che la pressione non può gravare sulle sole città e regioni di confine, e che un flusso redistribuito a livello nazionale diventa molto più facilmente gestibile.

Basterebbero cinquanta, cento posti letto per non mantenere al freddo chi non ha più nulla e dargli un tetto e un pasto caldo a rotazione per pochi giorni. In parallelo, le operazioni di trasferimento disposte dal Viminale andrebbero rese molto più frequenti (una o due al mese), anziché avvenire solo quando il fenomeno s’è ingigantito. È la concentrazione di persone irregolari che crea i ghetti e mina la sicurezza per loro come per i cittadini. Trasferirle più spesso costa di più, certo. Ma è il solo modo di affrontare seriamente quest’indegnità.

C’è poi un capitolo che nessuno ha ancora voluto aprire. La legge consente che i richiedenti asilo lavorino anche prima di aver ottenuto lo status di protezione. Possono farlo dopo soli due mesi dall’ingresso. E non sarebbe difficile, pur di volerlo fare, costruire un progetto ad hoc tra le pubbliche amministrazioni per impiegare temporaneamente (e sempre a rotazione) le centinaia, se non migliaia di giovani che quotidianamente ciondolano tra piazza Unità e Porto Vecchio ticchettando sul telefonino, senza nulla da fare né posto in cui andare. Daremmo loro la dignità di un piccolo reddito, ch’è il primo antidoto alla delinquenza, e ripareremmo molti marciapiedi e intonaci.

Siamo infatti tutti parte di un nodo ben più ampio, e non solo italiano. Il governo ha riaperto gli ingressi a un numero significativo d’immigrati regolari: più di mezzo milione in tre anni. Senonché, le imprese non trovano (o non sanno come far entrare) gli addetti che cercano, mentre quelli che entrano (purtroppo irregolarmente) non vengono fatti lavorare. Dei tanti paradossi della nostra epoca, questo è uno dei più stridenti.

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