Nei versi alla «matrigna e madre», respiri di libertà e suggestioni
di SIMONE CRISTICCHI
Trieste, città matrigna e madre,
culla di memorie che inventano il futuro,
mi hai preso per mano in quel giorno di ottobre,
e mai più mi hai lasciato andare.
Sicuro approdo di un poeta in cerca di radici,
di pagine bianche ancora da scrivere,
di bora forte a scapigliare i ricci,
e pioggia fredda che innaffia i pensieri.
Trieste nascosta, impossibile, misteriosa,
la tua follia, è un amore nuovo,
una carezza inaspettata, mattutina,
come improvvisa benedizione
in gocce d’acqua marina.
E poi perdermi di notte con te,
corteggiarti fino all’alba,
come una donna, assaggiare il tuo sapore,
decifrare la tela dei tramonti,
le pennellate di Dio che si posano sulla pagina bianca del tuo cielo.
Trieste, porto di ipotetici orizzonti,
e di arcobaleni affacciati sul mare,
dove l’onda ritorna, e riporta nuovi respiri:
sempre di libertà.
Città mosaico, che ogni giorno riunisce i pezzi,
che le macerie ai bordi delle strade hai spostato,
per farci più sicuri passare nel tuo passato.
Con le tue lacrime hai impastato
la calce, per costruire ossa più forti,
e poi al Mondo intero donarti.
Trieste, davvero, mi piace guardarti
con gli occhi di un bambino,
e l’innocenza perduta di chi non mente,
perché non c’è peggior sventura
che non stupirsi più di niente.
Nel tuo abbraccio forte
tra i sorrisi aperti come le vocali della tua gente.
Tornerò qui, sempre, città,
che come trampolino mi hai lanciato allo stivale,
il tuo nome, e le tue infinite storie, nella mia valigia di gemme preziose,
Trieste mia, le regalerò come rose.
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