Non solo medici. Dai corrieri alle cassiere: ecco chi ha lavorato in prima linea nella fase 1 contro il virus

Non sono medici e infermieri, non salvano vite. Ma anche loro, in questi tempi difficili di lotta contro il nemico invisibile che si chiama Coronavirus, lavorano in prima linea per rendere più facile la vita delle persone in quarantena, permettendo a tutti di restare il più possibile a casa, nella speranza che presto tutto questo finisca. Corrieri, cassiere, operatori ecologici, edicolanti… sono loro che consegnano i pacchi che acquistiamo online comodamente seduti sul divano di casa, loro che fanno in modo che il nostro frigo sia sempre pieno, che le strade siano pulite e che vengano garantiti i servizi essenziali come l’informazione. Il tutto dovendo affrontare spesso turni difficili e, in certi casi, addirittura l’ostilità delle persone. Senza contare la paura di portare il contagio tra i familiari rimasti a casa. Abbiamo raccolto le storie di alcuni di loro.
Il "senso civico" è il pensiero cui Simona Bertuccelli si aggrappa ogni giorno quando esce di casa, per andare a “trincerarsi” dietro le casse del punto vendita Eurospar di via Flavia. Per tutto il tempo in cui la donna svolge il proprio turno di lavoro, fanno parte della sua dotazione gel igienizzante, guanti e mascherine, cui si aggiungono in seconda battuta gli immancabili tubetti di crema idratante che lei e le sue colleghe hanno ormai imparato a tenere sempre in armadietto: è un modo, quest’ultimo, per prevenire arrossamenti e lesioni alla pelle delle mani, che sono soggette a continui lavaggi e al costante contatto con i presidi di protezione.
Di casa non si esce a cuor leggero, tuttavia «sono presente sul posto di lavoro per senso civico – racconta Simona –. Cerco di dare il meglio di me. Innanzitutto ci è fatto divieto di toccarci viso e occhi. Ciascuno di noi ha inoltre a disposizione guanti, mascherine e gel disinfettante. Quest’ultimo è posizionato in ogni cassa e pure all’ingresso del supermercato. Ci cambiamo i guanti molto spesso e, nel mezzo, ci laviamo le mani. Per precauzione versiamo l’igienizzante anche sugli stessi guanti».
Per la donna, come per molte altre persone, le precauzioni non sono mai troppe non solo per la propria sicurezza, ma anche e soprattutto per quella degli altri. Il cuore e la mente vanno a chi resta a casa: «Accudisco mia mamma che ha 84 anni e quindi cerco di garantire la massima sicurezza possibile, anche fuori dall’orario di lavoro. Oltre a lei ci sono i miei tre bambini, che non escono perché le scuole sono chiuse. L’unica che potrebbe portare in casa il contagio, pertanto, sono io».
Per fortuna «da parte dei clienti c’è totale rispetto. Si lavano le mani all’ingresso, indossano i guanti per fare la spesa e quando devono chiedermi un’informazione dicono “scusi, signora”, quasi dispiaciuti. Non si avvicinano, anzi, spesso si tengono distanti anche più di un metro. Mettono la merce sul rullo e poi passano oltre, senza fermarsi di fronte a me, come si faceva prima».
«Ci trattano come appestati, senza rispetto. Eppure stiamo facendo il nostro lavoro consegnando loro le cose che comprano su internet e lo facciamo lavorando in condizioni difficilissime». C’è rabbia tra i corrieri che ogni giorno consegnano pacchi acquistati sulle piattaforme digitali, dove dall’inizio dell’emergenza Covid-19 molti triestini comprano tutti quei prodotti altrimenti difficili da reperire a causa della chiusura di molti negozi.
Fin dalle prime settimane della quarantena gli operatori hanno visto un incremento delle consegne: «Siamo arrivati quasi ai numeri di Natale» spiega un corriere. Il problema non è però la mole di lavoro. «Quella non ci spaventa, siamo abituati a operare in condizioni molto difficili durante l’anno - racconta uno di loro». Quello che fa più “male” è l’atteggiamento dei cittadini: «Siamo trattati come appestati e spesso senza rispetto. Abbiamo delle regole chiare e dobbiamo evitare ogni contatto. Quando siamo costretti a chiedere le firme spesso ci guardano con circospezione e c’è chi usa addirittura i ganci per i vestiti per restare a distanza. Una signora mi ha fatto appoggiare la scatola a terra con sopra il tablet per la firma, ci ha spruzzato non so cosa e poi con fare schifato ha firmato. Con tutto il dovuto rispetto, basterebbe un po’ di gentilezza anche perché indossiamo sempre guanti e mascherine come da prescrizione». Qualcuno non accetta neanche di dover scendere a ritirare la spedizione.
Qualcuno prova a cercare il lato positivo: «Una signora una volta mi ha gridato dietro, ma era per darmi la mancia - racconta -. Sembra un piccolo gesto, per noi è un qualcosa di piacevole non tanto sotto l’aspetto economico, quanto perché ci fa sentire apprezzati».
Un’altra criticità è legata all’assenza di servizi igienici. «Sembra una cosa da poco, però con la chiusura dei bar per noi la situazione è complessa. Ci sono anche clienti che sono gentili e magari ci chiedono se abbiamo bisogno di acqua o qualcosa da bere, si tratta però di situazioni piuttosto rare».
Sono tra i pochissimi a muoversi dal tramonto all’alba, quando Trieste addormentata è ormai completamente deserta e irriconoscibile rispetto a prima. Ma si vedono in giro anche durante il giorno, quando può capitare che a seguito di un incontro fortuito qualcuno li ringrazi per quello che fanno. Stiamo parlando dei circa cento operatori dei Servizi ambientali di AcegasApsAmga, i netturbini ma non solo, che rappresentano una delle categorie rimaste in prima linea, nelle nostre città, durante l’intero corso dell’emergenza sanitaria. E tra mascherine in spogliatoio, guanti e camion disinfettati più e più volte al giorno, anche tra di loro c’è chi assicura di non aver mai vissuto nulla di simile in quarant’anni di carriera.
«Pure noi andiamo a lavorare con un po’ di preoccupazione da un lato e, dall’altro, un grande senso di responsabilità – spiega ad esempio Stefano Riosa –. Tutti abbiamo qualcuno a casa, vuoi un genitore anziano, vuoi un bimbo piccolo. Il più grande cambiamento, nella nostra routine, è rappresentato dall’adozione di tutta una serie di misure di sicurezza. Per il resto si continua a lavorare».
«Siamo spalmati su tre turni in modo da evitare assembramenti appunto negli spogliatoi nonché nell’autoparco. Poi ci si prepara alla partenza: prima di salire a bordo di un furgone lo si sanifica. E una volta tornati in sede si ripete l’operazione, per far trovare il veicolo nelle migliori condizioni possibili ai colleghi del turno successivo». A bordo di quel mezzo gli operatori ambientali si aggirano per la città che può essere deserta o semideserta, a seconda dei momenti della giornata. Se si lavora in orario diurno, può capitare infatti di incontrare qualcuno sceso a gettare la spazzatura: «A volte le persone ci ringraziano – continua l’operatore –. Se prima il rapporto con l’utenza era parte della nostra quotidianità, adesso chiaramente c’è meno gente in giro. Ma nonostante tutto quello che sta accadendo, la città continua a essere tenuta in maniera decorosa e pulita: le persone lo percepiscono».
Esistono poi anche i turni al buio: quello che inizia alle 5, prima dell’alba, e quello che dalle 22 prosegue nel cuore della notte. In quelle ore i netturbini sono tra i pochissimi esseri umani che hanno il permesso di percorrere le nostre strade: «Osservare Trieste così vuota è surreale e un po’ si fatica ad abituare l’occhio – conclude l’operatore del’ex municipalizzata –. Di solito stiamo in mezzo al traffico, vediamo l’affaccendarsi della città che si addormenta e che si sveglia. Il cambiamento è stato davvero repentino».
Tra preoccupazione e orgoglio, lunghi momenti di solitudine e altri caotici, con la consapevolezza di essere utili, ma anche il timore di non farcela a far quadrare i conti. Comunque, quotidianamente al lavoro malgrado tutto. Vivono situazioni differenti e sentimenti contrastanti gli edicolanti e i tabaccai, a tenere alzate le serrande ai tempi della quarantena anti-coronavirus. Tra gli esercizi commerciali aperti in città, le edicole continuano a essere autentico punto di riferimento per la popolazione in questi mesi di convivenza forzata con l’epidemia e di forti limitazioni. Non solo dal punto di vista dei servizi ma, quasi, anche da quello sociale, visto che l’edicolante emerge sempre più spesso come la figura amica con la quale scambiare due chiacchiere e uno dei pochi volti da poter vedere quotidianamente senza di mezzo il filtro dello schermo di un telefonino o di un computer.
A confermarlo sono le parole degli stessi diretti interessati, che più volte in queste settimane non hanno nascosto di sentirsi impegnati in prima linea in questa emergenza. «Devo confessare che questo è uno degli aspetti che più mi hanno fatto piacere – racconta ad esempio Francesca Pelosi, della tabaccheria Duca d’Aosta di Gorizia -: diversi clienti mi hanno detto di vedere in me una figura amica, con cui scambiare due chiacchiere. C’è chi telefona per qualche informazione, chi ha bisogno di magari solo di un sorriso: sembrano piccole cose che però contano in un momento come questo in cui ci sono tante persone costrette a restare sempre da sole».
Venendo invece a ciò che di più “prosaico” e concreto le edicole e tabaccherie hanno da offrire, detto del significativo aumento della vendita delle sigarette (con i confini con la Slovenia chiusi), dei quotidiani e di riviste e pubblicazioni di enigmistica che aiutano tanti a combattere la noia in quarantena, sono in forte crescita altri servizi. «Con gli uffici postali più piccoli che sono chiusi, e quelli principali che sono affollati, sempre più persone si rivolgono noi per pagare ad esempio le bollette – dice ancora Pelosi -. C’era chi lo faceva già prima, ma altri stanno scoprendo la comodità di approfittare di questi servizi nelle stesse attività dove si recano già per il giornale o le sigarette».
Certo il momento è difficile, e chi lavora lo fa in un clima di preoccupazione. Su più fronti. «Oltre alle paure relative all’epidemia, dobbiamo sperare di riuscire a far quadrare i conti: abbiamo poche entrate e tante cose da continuare a pagare», confida Maurizio Milliava, dell’edicola di piazza Cavour, mentre Gerardo Baglieri, in via Rastello, racconta: «C’è preoccupazione e un po’ di scoramento in tutti, da noi che lavoriamo ai clienti. Si spera di non ammalarsi, innanzitutto. Poi c’è anche da dire che malgrado tutto rispetto a chi ha dovuto chiudere bottega noi un pochino possiamo lavorare». «È vero, da una parte siamo fortunati a poter tenere aperto – conferma Raffaele Iug, della rivendita di piazza Vittoria –. Abbiamo però sia la consapevolezza del ruolo che svolgiamo, non facile ma di servizio, sia quella di essere esposti a rischi non indifferenti».
Trovarsi nell’elenco di chi può continuare a tenere aperta la propria attività, per un piccolo imprenditore, in questo momento rappresenta da un lato una “fortuna” visto che, come noto, chi non lavora, non incassa. Dall’altro lato, però, tenere in piedi il negozio espone a tutta una serie di rischi innescati dalla diffusione del Covid-19. Ecco sorgere dunque preoccupazioni che, fino a poco tempo, fa non facevano parte dell’orizzonte di chi ha un’attività ben avviata:visto il calo di clienti e persone in giro, in futuro riuscirò sempre a pagare i dipendenti? E i fornitori? A ciò si aggiunge ovviamente, come per tutti, l’altrettanto concreto timore del contagio.
A Trieste Micol Suppancig, titolare dell’omonima macelleria di piazza San Giovanni, affronta la situazione con un senso di «solidarietà nazionale che mi commuove – racconta –. Mi colpiscono molto i flash-mob sui balconi, i messaggi positivi sui social. L’atmosfera che è cambiata si sente tanto. E nel mio piccolo anch’io cerco di aiutare». La sua è un’attività storica, intrapresa dal bisnonno più di cent’anni fa, e cioè nel 1919: il timone è in seguito passato al nonno, al papà e infine a lei, nel 2004. «In questa fase emergenziale mi sento di star fornendo un servizio al cittadino - prosegue Suppancig -. Per questo motivo ho attivato la formula della consegna a domicilio, rigorosamente gratuita e senza minimo di ordine: fare diversamente andrebbe contro i miei principi. È infatti un modo per ricambiare chi fa la sua parte rimanendo a casa. Ne usufruiscono principalmente i miei fedelissimi, che sono affezionati soprattutto alla qualità prodotto. Non ho carne che proviene da allevamenti intensivi, ma soltanto allevata al pascolo, e il mio giro di clientela non guarda al prezzo bensì a quello che mangia. Io e i miei dipendenti ci organizziamo per effettuare le consegne spartendoci le zone, in modo da fare spostamenti intelligenti».
Passando alle misure di sicurezza adottate all’interno dell’edificio, «la macelleria è piccola ma strutturata in modo che non ci sia contatto con il cliente, per fortuna: i banchi sono molto profondi. Per il resto facciamo entrare una persona per volta già da un mese a questa parte. D’altronde stiamo in 40 metri quadrati». Come tanti altri, infine, anche Micol si prende cura dei genitori anziani, che in questi giorni rimangono a casa: «Li ho messi “al lavoro”, e cioè a fabbricare mascherine di garza e tessuto. Abbiamo visto dei tutorial e abbiamo deciso di provarci anche noi. Magari non serviranno a nulla ma si tratta più che altro di un modo di tenerli attivi».
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