TRIESTE, CHE COSA FARAI DA GRANDE?
Credo che non ci sia città italiana dove tanto si parli del destino della comunità come a Trieste. L’argomento principale qui non è tanto il guasto di una linea del trasporto urbano, lo scoppio delle tubature di un quartiere, l’interruzione della corrente elettrica, o il prevalere di questo o quel gruppo politico. Qui si ragiona spesso dei grandi temi. Non passa giorno che qualche pronostico per il futuro non si legga sui giornali, non risuoni qualche profezia ora radiosa ora nefasta, non si parli del risveglio del porto, del contatto con i paesi vicini, del futuro e del passato della città.
Trieste è caratterizzata dall’attesa che una delle aspirazioni finalmente si realizzi, e che qualcosa si metta in moto, cambi. Si sente parlare spesso di rapporto edipico dei triestini, nei riguardi della loro città, cioè di un rapporto d’amore del figlio verso la madre, un amore devastatore, impossibile, insaziabile portatore di sciagure. Si potrebbe però vedere il sentimento dei triestini come quello descritto nel bellissimo libro della Lalla Romano, «Le parole tra noi leggere». In questo romanzo una madre, la scrittrice, si adopera con caparbietà acciocché il figlio intraprenda degli studi universitari, che mostri un’ambizione sociale, che si distingua, invece questo figlio una cosa sola vuole: diventare ferroviere.
Anche a Trieste alcune menti vorrebbero prevedere qualcosa di grande per la comunità cittadina, un improvviso risvegliarsi in lei dell’interesse verso i vicini, dell’ambizione, del voler realizzare qualcosa di grande. Tra questo figlio, che è Trieste, e i suoi genitori, gli abitanti, c’è un’attesa spasmodica che qualcosa avvenga, e che il ragazzo Trieste, di malavoglia ma dia retta ai suoi papà e alle mamme, si decida a riprendere gli studi. Ma il ragazzo non ne vuole sapere. Il ragazzo aspira soltanto a una dignitosa, comoda, vita anonima ma sana. Non gli importa di niente, di nessuno, di ambizioni o ideali, di grandi progetti.
Già i cinesi della città si stanno orientando verso altri luoghi, altri mari: meno male, dice il ragazzo. Così gli abitanti resteranno sempre meno e così vivrò davvero in pace. Pochi giorni fa ho sentito parlare di questo argomento in un negozio, proprietà d’un giovane imprenditore. Alle previsioni del suo interlocutore di un collasso demografico egli ha risposto: «Meglio! Diventeremo un borgo di cinquemila abitanti, come Aquileia dopo la devastazione da parte degli unni. Resteremo tali, per sempre, un borgo? Meglio! Io non ne posso più di sentir parlare di porto, di vicini, di avvenire!». Ha detto anche parole un poco più «forti», quel figlio. Nella famiglia Trieste, evidentemente c’è un sovraccarico di attese sociali, alle quali la città non vuole corrispondere. I genitori, cioè gli abitanti, in realtà continuano a nutrire un atteggiamento sempre più paterno. Si correggono a vicenda se uno fa un errore, mettiamo, nel parcheggiare un’automobile, si danno un con l’altro degli ordini: asino (sempio) non vede cosa sta facendo? Chi le ha insegnato a fare così?
Questo atteggiamento di eterni insegnanti, di eterni padri si è piantato nell’animo dei triestini, che vorrebbero spronare gli altri, ma non se stessi, a fare qualcosa, aspettano che il figliol prodigo, la città, si ravveda e si rimetta sulla buona strada. A quale delle due parti dare ragione? Al figlio, che nel possesso delle comodità più o meno modeste o notevoli, voglia fare «il ferroviere», come nel libro di Lalla Romano, oppure ai genitori repressi ma ambiziosi, che spronano il ragazzo, lo vorrebbero un individuo energico, ambizioso, sportivo? Magari lo fanno per amore, per il bene del ragazzo, ma quell’amore rischia di diventare violento, amaro. Possiamo trasformare Trieste, cambiare le abitudini attuali, le usanze? È vero, la città è notevolmente mutata negli ultimi tempi, e magari nemmeno lei lo sa, come ho letto ultimamente. Ma la sua indole è cambiata poco.
È rimasta quell’incredibile, unico miscuglio per il quale Trieste si distingue tra tutte le città, tutte le popolazioni d’Italia. Uno scetticismo totale misto a grandi slanci e grandi idee pervade tutt’ora questo luogo, che è un vero mito per gli italiani. Ma in sostanza la questione resta sempre quella: dobbiamo spronare questo figlio, o lasciarlo al suo destino, vada come vada. C’è anche un altro aspetto. L’ambizione di molti genitori, è che il figlio legga bei libri, vada a vedere degli spettacoli, ascolti concerti d’ogni tipo, si aggiorni anche in questo campo. O che partecipi a grandi feste popolari, con cibo abbondante, un po’ di vino e assenza di qualunque pensiero, cattivo o buono. Anche in questo il figlio è un po’ reticente e preferisce lasciare le cose come sono: perché cercare novità? Chi ha detto che le novità siano buone? I nonni hanno sempre ascoltato le solite opere liriche, i soliti concerti di musica classica? Beh, quella è anticaglia senza senso, senza futuro.
Quanto alle feste con mangiate e bevute, è un altro discorso. Lì forse posso accompagnare mamma e papà. Per il resto, mi piace trovarmi con gli amici al bar, fino a tardi, e bere un po’, gridare e scherzare. Che male c’è? Naturalmente a Trieste ci sono cose da invidiare. Gli eccellenti ospedali, istituzioni che dovrebbero spronare il ragazzo verso un gusto nuovo (ma solo raramente lo fanno) l’incredibile bellezza naturale, un diffuso amaro buonumore. Insomma, questo figlio che cosa deve fare? Ritirarsi, come ha fatto l’imperatore Diocleziano nel terzo secolo dopo Cristo, a coltivare cavoli e stare in serenità a meditare, oppure dare retta alle ambizioni dei genitori, e magari essere infelici?
Viviamo in un’epoca in cui ogni giorno si presentano immani cambiamenti, nascono nuove possibilità, l’uomo evolve verso un futuro prossimo di cui oggi stesso, un minuto prima, non sa nulla. Per qualcuno il figlio fa bene a ritirarsi, per qualcun altro no. Ma una cosa è indispensabile, anche per la sopravvivenza. Non rinunciare alla solidarietà verso il nostro simile, non voltare le spalle mentre egli sta facendo male. Questa legge del più forte (al momento), questa spietata selezione naturale può condurre una società di assassini, la vita sulla terra a un macello spietato, infinito. Il figlio di cui parla il libro che abbiamo citato non è così. È una persona mite, affettuosa, pacifica.
A questo punto tutti devono scegliere se accettare il tumulto della vita, oppure se tirarsene fuori, con la pace nel cuore. Trieste figlio deve fare la sua scelta, e i genitori, i triestini, lo stesso. Ma io penso che su questo argomento continueremo per un bel pezzo ancora a ragionare, discutere e certe rare volte, anche a fare.
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