Un benvenuto di bora e pioggia all’alba insonne del 26 ottobre

Già dalla notte la gente cominciò a riversarsi nelle strade e sulle rive
Di Pierluigi Sabatti

di PIERLUIGI SABATTI

«Trieste, alba del 26 ottobre. Un'alba come tante altre su uno di quei giorni d'umore incerto di questa fine d'autunno. Anche il mare non ha detto se oggi sarà placido o bizzarro. Aspetta la decisione del vento». Comincia così con la voce ben impostata dell'annunciatore il cinegiornale Luce che racconta quella giornata particolare di sessant'anni fa, quando la città ritornò sotto amministrazione italiana.

Mentre il fine dicitore descrive poeticamente le bizze del tempo, un testimone oculare, Alvio Burrosi, nel suo diario inedito (che il figlio ha pubblicato sul sito www.triesteitaliana.it) così scrive: «Peggior aiuto di così il tempo non poteva dare ai soldati italiani. Pioggia e bora, bora e pioggia tutto insieme, forse nell'intento di trattenere i Triestini nelle loro case. Quasi temevo che ci fosse poca gente in città, ma ben presto fui tranquillizzato: le case si svuotavano, le automobili sfrecciavano verso il centro e famiglie intere, uomini, donne, ragazzi, bimbi e vecchi scendevano la collina riparandosi alla meglio con i più svariati mezzi di fortuna nelle zone battute, ed aprendo ogni tanto qualche ombrello nei punti di bonaccia».

«La marina era nera di gente, potemmo avvicinarci alla piazza (Piazza Unità d'Italia) alla distanza di 300 metri al massimo. Più in là era impossibile penetrare, tanto la calca era fitta. Io, avvolto nel mio impermeabile da caccia, mi arrampicai sulle sartie di un peschereccio di altomare per vedere almeno da lontano l'arrivo delle navi.

Sui tetti delle case vicine, alle finestre, agli abbaini ed in qualunque luogo si potesse scorgere il mare c'era gente che guardava ed agitava bandiere, nastri, drappi e fazzoletti bianchi rossi e verdi. Una folla immensa sotto la bora e la pioggia violenta».

Le immagini del cinegiornale Luce testimoniano queste scene di entusiasmo. Gli operatori riprendono la folla che invade viale Miramare e quella che si ammassa all'inverosimile le Rive. Ore e ore di attesa estenuante sotto la pioggia e il vento rabbioso. «Era un urlo continuo - si legge nel diario di Burrosi -: "Giungono! Arrivano! Ecco le navi! Ecco i Bersaglieri!" E via, un correre da una parte all'altra per vedere i nuovi arrivati che… spesso non erano affatto arrivati!».

Finalmente verso mezzogiorno ecco gli italiani, dal mare e da terra. Come riporta il cinegiornale, le navi sono il Duca degli Abruzzi, il Grecale, l'Artigliere e il Granatiere. Intanto i bersaglieri arrivano sugli autocarri, che, dall'ingresso in città, impiegano oltre un'ora per fare sì e no un chilometro o poco più. Burrosi scrive: «Gli autocarri erano zeppi di triestini. Erano entrati dappertutto; e i poveri soldati pigiati dentro, mezzo soffocati dal grande abbraccio di tutto un popolo! Come riuscissero a guidare gli autisti è una cosa che non potrò mai spiegare. Sul cofano, sui parafanghi, sull'imperiale, ovunque ci fosse il più piccolo appiglio c'era arrampicato un giovane o una ragazza».

Ovviamente i cappelli dei bersaglieri, in particolare le piume, erano diventati i più ambiti souvenir dell'evento.

«Anche l'assalto alle navi ebbe luogo a tempo debito - testimonia Burrosi -, non appena accostarono, ed i marinai non poterono far altro che aiutare i molti giovani d'ambo i sessi che s'erano lanciati all'arrembaggio. In pochi momenti a bordo si vedevano più borghesi che marinai e nulla riusciva a trattenere gli assaltatori, neppure le onde, il vento e la pioggia che sulla riva facevano il diavolo a quattro». .

Ben altra atmosfera si respira nei palazzi del potere: il generale inglese sir Thomas Winterton, comandante del Gma (Governo militare alleato) dopo aver sospeso, con il pretesto delle condizioni atmosferiche, le celebrazioni ufficiali che dovevano comprendere una parata inglese, una americana e una italiana e gli onori militari, non saluta neanche il generale Edmondo De Renzi al quale doveva passare le consegne, e abbandona la città quasi furtivamente. «Avevano pesato sulla sua decisione - spiega lo storico Raoul Pupo - il timore crescente di un attentato alla sua vita e la dolorosa consapevolezza che un pesante fardello di rancore e di ostilità era ultimamente gravato solo sulle sue spalle». De Renzi arriva in piazza Unità con i suoi bersaglieri tra mille difficoltà. Riesce a guadagnare l'ingresso della Prefettura e arriva sul balcone dove viene accolto dal sindaco Bartoli.

Ricorda Gabrio de Szombathely nel suo libro "A Trieste sotto 7 bandiere": «Verso le 11.45 ci fu offerto in cambio lo spettacolo dell'arrivo del cacciatorpediniere Grecale, bello, lungo, grigio, che attraccò alla banchina proprio davanti alla piazza ed altrettanto fece un secondo cacciatorpediniere italiano alla banchina di sottovento del molo Audace, zeppo fino all'orlo di persone ed ombrelli e non so come in quella calca le due navi riuscirono a distinguere sul molo le bitte cui assicurare i loro cavi d'ormeggio. Ma lo spettacolo più bello fu il bandierone italiano sventolante sul Grecale: e per me fu quella la settima bandiera; non era la bandiera del 1918 con lo stemma sabaudo e lo stemma reale, ma quella della Repubblica italiana, con l'emblema della Marina Militare e gli stemmi delle quattro Repubbliche Marinare Sulla balconata della Prefettura il generale De Renzi pronunciò un messaggio di saluto alla città, avendo accanto a se il buon Gianni Bartoli, che finalmente portava la fascia tricolore di sindaco italiano».

In città, tra i tanti giornalisti, quel giorno c'è anche Giorgio Bocca, inviato della Gazzetta del Popolo: «Vissi quella giornata con molta preoccupazione. Mi dava l'impressione che si stava celebrando una soluzione tutto sommato non risolutiva della tragedia giuliana. Si trattava di un successo dentro una grandissima sconfitta, e questo dava un certo senso di amarezza per cui i festeggiamenti sembravano a me dei festeggiamenti un po' "obtorto collo", anche se i triestini erano contenti. In ogni caso gli italiani, salvo la retorica nazionalista e fascista, non hanno mai capito il dramma di Trieste e non hanno mai voluto occuparsene. Questo perché era un dramma irrisolvibile. C'era Trieste, e c'erano tutte le città italiane dell'Istria circondate da popolazione slava. Era un po' come l'Algeria, quando andava via uno arrivava l'altro. Per gli italiani era difficile capire ciò. I triestini, avendo vissuto sulla loro pelle quei drammi, tendevano molto all'estremismo, con un odio di razza che gli italiani non capivano».

Bocca intuisce che c'è in città chi non festeggia: sono gli esuli istriani, i quali capiscono che l'Istria è definitivamente perduta: «Se una sorella rinasce, l'altra muore», affermano. Se ne fa interprete il vescovo Santin che ammette di poter soltanto pregare per i suoi conterranei, destinati a disperdersi nel mondo.

E a disperdersi saranno anche migliaia di triestini: già il 15 marzo del '54 la nave "Castel Verde" è la prima a lasciare la Stazione Marittima per raggiungere l'Australia: a bordo circa 650 emigranti pieni di speranza, diretti verso l'ignoto. Sottolinea lo storico Piero Purini: «Da quel giorno, e per oltre sette anni, altre navi salpano da Trieste, una reca una amarissimo scritto su uno striscione: "Torna la madre, i figli partono". Sono circa 22 mila persone che decidono di lasciarsi alle spalle la crisi economica che colpì la città e l'instabilità politica. Quasi la metà raggiunge le coste australiane».

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