Zoncolan, l’inferno che sorride ai ciclisti

di Alessandro Mezzena Lona
Prima era solo un posto di nuvole e fiori. Un paradiso di malghe e alpeggi. Una striscia di strada che tagliava, come affilatissima lama, quella montagna della Carnia sconosciuta ai più. Poi, all’improvviso, lo Zoncolan si è trasformato nell’inferno dei ciclisti. Teatro di tappe memorabili del Giro d’Italia. Mito imprescindibile per carovane di cicloamatori che, da tutto il mondo, sognano di scalare un giorno la salita più dura d’Europa. Più ostica del Mortirolo, più ripida delle Tre Cime di Lavaredo, più cattiva perfino dello spauracchio spagnolo: l’Alto de Angliru.
Ci ha pensato il Giro d’Italia a puntare i riflettori sullo Zoncolan. Anzi, no, si deve a Enzo Cainero, infaticabile macchina organizzativa dello sport in Friuli Venezia Giulia, il merito di aver calamitato gli occhi dell’organizzazione milanese sul piccolo inferno carnico. Ma, per correttezza, bisognerebbe partire da Francesco Guidolin, il mister dell’Udinese contagiato dalla febbre delle due ruote, che nell’estate del 1998 ridicolizzò in tv la vittoria ottenuta a sorpresa contro la Juve. Quella mattina aveva scalato in bicicletta sua maestà il Kaiser, sputando l’anima, come se mille streghe lo stessero torturando. E lui, ai microfoni, disse che la cosa più complicata della giornata non era stato battere la Vecchia Signora. No, molto peggio scalare in bici lo Zoncolan. «Una salita impossibile».
E se l’inferno della Carnia, adesso, viene guardato come un paradiso per chi ama le due ruote, dietro c’è tutta una storia da raccontare. Un’epopea che Antonio Simeoli, giornalista friulano pure lui colpito dalla febbre a pedali, ricostruisce con grande precisione e passione nel libro “Zoncolan. La montagna diventata mito”, in uscita per Forum Editrice di Udine il 24 marzo e realizzato in collaborazione con la “Gazzetta dello Sport” e con il “Messaggero Veneto”.
La storia dello Zoncolan, per un lettore frettoloso, si potrebbe liquidare in pochi fotogrammi. Che inquadrano i primi sciatori sui ripidi prati pieni di neve. O la signora che sale in seggiovia vestita come tutte le contadine della Carnia di allora, senza capi in microfibra, senza abiti supercaldi. E poi, la prima strada voluta da Mussolini come linea difensiva d’alta quota, per mostrare i muscoli all’alleato tedesco. E quel tracciato di guerra che si trasforma, diventa striscia d’asfalto in mezzo a una distesa di prati sterminata. Calamita i ciclisti, li ipnotizza e li spinge verso una fatica sovrumana. Accogliendoli con il cartello: «Qui comincia l’inferno».
Non ci sono mai stati diavoli sulla strada che da Ovaro, da Liariis porta in cima. Eppure, fino al 2003, il responso dei sommi capi della “Gazza” era stato scoraggiante: «Da lì il Giro non salirà mai». Perché il mostro Zoncolan incuteva timore. Chi c’era stato, come i coraggiosi esploratori della rivista “Cicloturismo”, e poi gli 86 amatori del Circuito Udace che lo scalarono nell’agosto del Duemila, tornavano a valle con racconti tenebrosi. Parlavano di pendenze impossibili, buche, ghiaia, ramaglie sulla carreggiata ridotta a un sentiero. E descrivevano le tre gallerie, sù in alto, come porte d’accesso all’inferno.
Ma dopo Guidolin, e le sue esternazioni in video, Cainero ha pigiato sull’acceleratore. Strappando agli organizzatori del Giro il primo sì nel 2003: con la vittoria di Gibo Simoni sul versante, meno arcigno, che sale da Sutrio. Il resto è storia: dal 2007, la salita da Ovaro ha trasformato lo Zoncolan nel Maracanà del ciclismo. Portando 150mila persone sulla strada a gustarsi il bis del campione trentino e la rinascita di Ivan Basso, dopo la bufera doping.
Quest’anno, la carovana rosa si arrampicherà ancora sulle pendenze spietate del Kaiser. Prima del gran finale a Trieste. Sognando di sfidare ancora il gigante, in futuro, dalla terza via. La mulattiera di Priola.
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