Addio Mario Benedetti, maestro della poesia contemporanea

Mary Barbara Tolusso
Aveva gli occhi azzurrissimi, Mario Benedetti, il poeta friulano – da molti anni residente a Milano – scomparso ieri per complicazioni legate al virus del momento. Si è spento in un ospizio a Piadena, vicino a Cremona. Mario Benedetti era originario di Nimis, dove era nato nel 1955 e appunto aveva gli occhi intensi, non per questo dolci, erano occhi anche taglienti, profondi, di uno che va oltre ciò che sta osservando.
Benedetti oggi è acclamato come una delle voci più salde della poesia contemporanea, un maestro delle ultime generazioni. Lo testimonia anche l’opera omnia, “Tutte le poesie”, edita da Garzanti, uscita nel 2017. Prima Benedetti aveva già pubblicato per case editrici importanti, nonché per la prima collana di poesia italiana, Lo Specchio (Mondadori). Il suo esordio nello Specchio fu nel 2004 con un libro fondamentale, “Umana gloria”, a cui seguirono nella stessa collana altre due raccolte.
Una vita non facile la sua, un’infanzia dura in un paese dall’identità post bellica ancora confusa (la madre era slovena), un territorio afflitto dalla povertà, a cui si aggiunse il terremoto del’76. Se ne allontanò presto, andando a studiare Lettere a Padova dove incontrerà gli amici di una vita. Come Stefano Dal Bianco con cui fondò nel 1986 la rivista “Scarto minimo” e dove sono già chiari i codici della sua poetica. Quella di Benedetti si è sempre affacciata a un vivere quotidiano, ai minimi elementi – scarti – di ciò che in fondo compila l’esistenza.
Dietro c’è tutta la complessità di una necessità “comunicativa” alimentata anche da ambivalenze e antitesi. Un percorso preciso, che dai toni più lirici dei primi componimenti, giunge a una scrittura più scarnificata, talmente nitida da chiarificare l’esperienza del dolore e della morte: “Vedere nuda la vita / mentre si parla una lingua per dire qualcosa”, scrive in “Tersa morte” (Mondadori, 2013), consapevole che nessun uomo può evitare l’esperienza del dolore, allo stesso modo in cui è impossibile riuscire a raggiungere una verità espressiva.
Lui il dolore l’aveva conosciuto da vicino, con la malattia, quella sclerosi multipla che lo colpì a più riprese e che da alcuni anni lo costringeva nel silenzio. Forse nessuno come lui, oggi, ha elaborato la dimensione tragica della fine inventandosi un linguaggio, sfasando a suo modo l’io soggettivo, sovrapponendo presente e memoria, anticipando l’inevitabile sconfitta, ma certo, nel suo caso, lasciando una chiara traccia: “Chi vive dice nella vita tante cose / che restano nella vita che muore”. —
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