Aspettando l’amore che macina chilometri

di IRENE CAO
Una melodia d’arpa, poi d’improvviso un suono ritmato, elettronico, energetico.
Chiara allunga il braccio verso il comodino e clicca “OK” sul display dell’iPhone.
O.Kappa. È definitivamente ora di alzarsi.
Si volta a guardare l’altra metà del letto: Ricky dorme ancora pacifico, una mano sul pancino e il pollice appoggiato alla bocca. Lei gli posa un bacio leggerissimo sulla fronte e pensa che non sarà mai sola. Mai. Se lo tiene vicino, la notte, per sentire meno il vuoto. Per riempire lo spazio che sarebbe di Damiano.
Scivola fuori dal letto e va in cucina. Infila una capsula gusto Intenso nella macchinetta del caffè ed estrae dal frigorifero il latte per Ricky. Gli dà il biberon con i Plasmon; a volte succhia ancora il ciuccio, il suo ometto di tre anni.
La campana del duomo risuona in lontananza. A Vittorio Veneto sono le otto.
Non che le piaccia abitare lì, veramente. È stato Damiano a decidere. Potevano andarsene dalla provincia, vivere in un attico in centro a Milano, ma hanno sempre pensato che fosse meglio per il bambino, rimanere fuori. Lui lo ha sempre pensato. «Voglio che mio figlio respiri aria sana, almeno fino alle elementari. Poi vedremo…» Va al nido, ora, Riccardo; ce n’è di tempo, prima delle elementari. Magari non saranno neanche più insieme per quella volta. È un pensiero che ogni tanto la sfiora. Se solo lui fosse stato un po’ più presente in tutti questi anni! Ma, in fondo, quando l’ha sposato lei lo sapeva che non avrebbe mai potuto pretendere di più. Come fai a pretendere presenza da uno che si macina chilometri e chilometri di asfalto ogni giorno in giro per il mondo? Non ha neanche scelto lui, forse, di fare il ciclista di professione: sembrava destinato a quello.
«Mamma?» La vocina di Ricky. Si è svegliato.
«Arrivo, amore». Chiara butta giù un sorso di caffè e corre in camera.
Sta già pensando a come vestirlo dopo. A cipolla, di sicuro, perché fuori si gela e al nido tengono troppo caldo. Poi va a finire che si ammala, tra bambini si passano di tutto. E Chiara non lo regge. È una cosa più forte di lei, la fa andare in paranoia vedere gli altri stare male, anche quando si tratta di una banale influenza.
Prende in braccio Ricky e butta un occhio all’iPhone sul comodino: due chiamate perse di Celeste.
Merda, la suoneria! Si è dimenticata di attivarla. Quella starà già pensando al peggio, strano che non le sia ancora piombata in casa… Però, che vita! Oltre alle sue, deve pensare anche alle ansie di sua madre.
La chiama.
«Pronto? Chiara? Tutto bene?!» Il tono di Celeste rimbalza tra disperazione e angoscia.
«Sì, mamma. Tutto bene, sì».
«Vieni a pranzo da noi, vero?»
«Stamattina passerei a fare due conti al ristorante, ma ok, per pranzo vi raggiungo». Il bistrot che gestisce a Serravalle oggi è chiuso, così almeno può respirare un po’. «Va il papà a prendere Ricky al nido?»
«Sì, tranquilla».
Adesso che è in pensione, suo padre sta cominciando a fare il padre. Per lei e anche per suo figlio. «Grazie, mamma. A dopo».
Andava a prenderla alla scuola in bicicletta, una Graziella rosa con il cestino davanti e il sellino montato sulla ruota dietro. Era sempre Celeste a occuparsi dei bambini. Lucio non c’era mai. Anche lui, come Damiano, macinava chilometri di asfalto. Con il camion. Faceva le consegne per una ditta di arredamento: armadi, letti, cassettoni, comodini, sedie, tavoli trasportati da un capo all’altro dell’Italia.
Chiara era in quarta elementare. Quel giorno, al ritorno da scuola, si erano fermate al forno del paese per prendere le solite tre rosette e una ciabatta che dovevano bastare per pranzo e cena. «Dammi anche tre diplomatiche, va’» aveva detto Celeste alla Gianna, la fornaia con le braccia da uomo. Mezza pasta per Celeste, una per Chiara, una e mezza per Emanuele, che di anni ne aveva già quattordici e bambino non era più. Chiara se lo ricorda bene ancora adesso, il gusto di quella pasta alla crema. Perché quel giorno a pranzo era successa una cosa bella.
Alla tv su Rai Uno c’era la Carrà con il gioco telefonico dei fagioli. Improvvisamente, dalla portafinestra aperta del soggiorno era entrato un gatto. «Mamma, guarda che bello!» aveva urlato Chiara, la bocca piena di crema e pasta sfoglia.
«Che figo!» Emanuele aveva fatto una risata allucinata, come se avesse appena visto un alieno.
«È da stamattina che gira qui intorno…» Celeste era perplessa, quel gatto non lo aveva preso come un buon segno. «Credo che lo abbiano abbandonato».
Chiara era rotolata giù dalla panca per accarezzarlo. «Lo teniamo noi? Dài, mamma, è bellissimo!»
Ha già due figli da accudire e una casa a cui badare, ci manca anche il gatto persiano, adesso. «Non si può, vostra nonna dice sempre che i gatti portano il demonio».
«Non ci credo!» aveva piagnucolato Chiara.
«Chiamala! Se nonna Angelica dice che possiamo tenerlo, lo teniamo». Emanuele era volato nel corridoio d’ingresso. Aveva composto il numero sul telefono grigio, poi aveva dato in mano la cornetta a sua sorella...
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo