Carmelo Bene, nei versi del diciassettenne c’è tutto il suo futuro
«Immortali mortali, mortali immortali, viventi la loro morte e morenti la loro vita». Questo non è Carmelo Bene, bensì Eraclito, ma possiamo dedurre che Bene sarebbe stato abbastanza d’accordo, salvo individuare qualcosa per dichiararsi “contro”. Perché Bene era sempre contro qualcosa o qualcuno, nella vita e nell’opera. È stato definito in mille modi e le definizioni erano ciò che più osteggiava: in fondo, come ha ripetuto alla nausea, lui non esisteva e insieme a lui tutti noi. Sempre oltre, sempre estremo, un dandy delle Puglie che seduceva anche con la propria assenza.
Ma prima, prima che Carmelo Bene diventasse Carmelo Bene, che cos’era questo artista? Come viveva? È stato un bambino spensierato? Un adolescente dai desideri ordinari? Perché è persino impossibile immaginarlo in questo modo, quasi non fosse predestinato da subito a una vita spettacolare. C’è invece un Carmelo inedito, quello che si avventura nelle primissime prove scritturali, mai edite finora, che ce lo mostrano nella regolare vivacità di inquietudini adolescenti. Certo, “regolare vivacità” alla Bene, a partire dal titolo, che poi è l’incipit di un verso: “Ho sognato di vivere! Poesie giovanili” (Bompiani, pag. 128, euro 15), titolo che fa naturalmente eco a quel “Sono apparso alla Madonna” scritto vent’anni dopo.
I germi del suo futuro percorso sono già lì, ma qui leggiamo un uomo che soffre la perdita, assai lontano da un Bene mai nato e mai vivo, versi in cui il distacco detta il ritmo di un talento già indiscutibile, distacco dall’infanzia, dalla madre, dal paesaggio.
Un senso innato del ritmo, questo è evidente da subito, oltre alla disinvoltura con cui il giovanissimo artista si destreggia con figure retoriche, sinestesie, allitterazioni, anafore. Giovanissimo sì, sono poesie scritte dai diciassette ai ventun anni, composte per lo più a Santa Cesarea Terme: «Sono convinto che mia nonna Amelia comprese così bene il valore di quelle piccole grandi poesie – scrive il nipote – che trovò il modo, per mezzo di mia mamma Maria Luisa, di far loro attraversare mezzo secolo indenni prima che venissero affidate alla mia cura».
Il desiderio univoco di madre e sorella era quello di divulgarle. Per fortuna l’hanno fatto (chissà se Bene approverebbe), perché sono dei piccoli gioielli che, per quanto fatalmente riecheggino Leopardi, D’Annunzio, Ungaretti e forse l’“Hyperion” di Hölderlin, sono tecnicamente perfette, di grande forza straniante, basti un incipit: «Nel cielo che si svena / di lampi…».
Poesie scritte fino alla svolta del ventiduesimo anno, il primo esordio teatrale, nel “Caligola”, e l’inizio di una serie di scandali, legati soprattutto al mitico Teatro Laboratorio. In seguito Bene traslocherà la poesia nell’atto performativo, ma “Ho sognato di vivere” è quanto di più autentico ci lascia un genio “ancora innocente”, che porta la colpa di mitragliare i precipizi dell’ipocrisia, quelli che solitamente nessuno ha voglia di affrontare.
«Raccoglierò abbondanza / d’amarezza», scriveva a diciassette anni. Forse fu Flaiano a farne il ritratto migliore, in occasione del “Faust”, dicendo quanto custodisse una moralità portata alle “nostre” estreme conseguenze, artefici di una vita priva di significato, che finiamo per vivere com’è, con la cultura che si esaurisce nel nozionismo, l’amore nell’erotismo, la gloria nel successo. Altro che cinico Faust, Bene ci ha fatto vedere come «non ci accorgiamo mai di avere a che fare con il Diavolo, neppure quando ci tiene per il colletto». Ma è un po’ la condanna dei poeti: se troppo franchi, passano per cinici. —
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