Con la forza dei libri Charlotte Brontë cancellò la bruttezza

di ROSA MATTEUCCI
Chiamata per la prima volta alla presentazione di un libro che non ho scritto io - il saggio di Lyndall Gordon: “Charlotte Brontë. Una vita appassionata” (Fazi Editore), al Salone del Libro di Torino oggi alle 13 nello Spazio Babel, in concomitanza con la festa per il quinto scudetto consecutivo della Juventus - finalmente potrò essere indifferente al numero dei presenti in sala.
Le sorelle Brontë per eccellenza, Emily e Charlotte, non considerando le derelitte Mary ed Elizabeth morte di tubercolosi appena decenni, e la quieta Anne morta solo un po' più tardi; mi accompagnano da sempre nella mia grama carriera di scrittrice chiamata in tv. Come ognuno può intuire, se la televisione chiama, il prescelto deve assolutamente andare, anche nelle peggiori condizioni esistenziali o climatiche. Infatti mi son rassegnata a sciocchi siparietti su emittente nazionale alle 7,45 del mattino e ad altrettanto demenziali comparsate da opinionista mutola come in un racconto dell'Invernizio, nei pomeriggi dei videosalotti per casalinghe.
Convocata al tavolo dove si celebrerà il bicentenario della nascita di Charlotte Brontë subito mi vengono in mente i parrucchieri degli studi televisivi, perché ogni volta che sono stata accolta per il rituale del trucco e parrucco - intendendosi con tale espressione l'obbligo per l'ospite di venir truccato con particolari fondotinta concepiti per le potenti luci degli studi, cosmetici simili allo stucco atti a scongiurare eventuali riflessi e drammatiche scolature e quindi anche pettinati, posto che il parrucchiere vero è previsto solo per i programmi più importanti - pensavo alle sorelle Brontë. Così come si vedono del ritratto, alla National Portrait Gallery di Londra, realizzato dal fratello Branwell. Le tre miserelle sfoggiano dei boccoli vagamente sricciolati, boccoli inconsistenti di capelli troppo sottili e mezzi inariditi, fatti in casa così come potevano tre ragazze malaticce segregate in una canonica con vista sul cimitero. Seduta sulla poltrona in similpelle davanti ad uno specchio hollywoodiano contornato di lampadine accese, alla ferale domanda dell'acconciatore: «Come li vuole?» ho sempre risposto di getto: «Voglio i boccoli, i boccoli alla Sorelle Brontë».
I parrucchieri in cui sono incappata non hanno mai capito a cosa mi riferissi. Con tutta evidenza la parola Brontë li destabilizzava, per quanto toponimo siculo e quindi orecchiato almeno talvolta se non altro per la fama degli omonimi pistacchi, rimanevano con il phon a mezzasta, l'aria stolida, costringendomi a ripetere boccoli, voglio i boccoli. Boccoli che mi venivano fatti restando però un fondo di sospetto negli sguardi degli acconciatori che non riuscivano ad associare quel Brontë ai boccoli.
Charlotte fu tosto alleata con il fratello Branwell - sempre chiamato con il cognome materno e mai con il suo nome di battesimo Patrick - accomunata da una certa vivacità esistenziale nell'anelito di vivere una vita vera, per quanto possibile da confinata nell'orrida brughiera dello Yorkshire negli anni '40 del Diciannovesimo secolo, epoca in cui le femmine dovevano essere molto riservate e non potevano certo ambire a fare le scrittrici, infatti Charlotte scrisse sotto pseudonimo, in contrasto con le esangui sorelle minori, la strepitosa Emily, una lungagnona simile al Reverendo, il padre irlandese, quel signor Brunty che si cambiò il nome in Brontë quando Nelson fu nominato Duca di Brontë in Sicilia, e la minuta, graziosa, l'unica fra le sorelle che possa definirsi caruccia, Anne anche lei vocata alla scrittura. Nel più celebre dei suoi romanzi, “Jane Eyre”, che non ho mai apprezzato avendolo letto dopo lo sconvolgente "Cime tempestose" della povera Emily - morta solo trentenne dopo aver lasciato un simile capolavoro alla storia della letteratura -, si narra di due sorelle malestanti costrette a fare le istitutrici in case di spocchiosi commercianti o presso modesti aristocratici di campagna. Questa è in parte la biografia di Charlotte ed Emily costrette per bisogno a lavorare sotto padroni nella prospettiva di restare zitelle, il Reverendo Brontë non avrebbe certo potuto assicurare la dote a cinque figlie femmine, anche se le figlie morirono quasi una dopo l'altra sollevandolo da tale preoccupazione. Charlotte Brontë a differenza delle sue sorelle aveva una gran voglia di vivere e di scrivere. Pur consapevole di non essere una bellezza, in un'epoca in cui alle donne oltre che all'obbedienza a padri e mariti, si chiedeva un bel volto, Charlotte seppe confrontarsi con la solitudine, l'orfanaggio, un padre autoritario e anaffettivo, l'amore non corrisposto - innamorandosi di Hegèr un professore collega sposato con prole - e un rosario di morti in famiglia, per prima la madre, quindi una dopo l'altra tutte le sorelle e il fratello, seppe trasformare le tristi vicende esistenziali della figlia di un Reverendo in atti creativi, ne fece la sua scrittura che fu sopratutto coraggio e volontà di vivere, scrittura che la condusse infine, ormai vecchia perchè trentanovenne, persino al matrimonio con un ennesimo uomo di chiesa, matrimonio destinato a concludersi sopo solo nove mesi, un lasso di tempo eloquente e fatale nella vita di una donna, con la sua stessa morte. Ufficialmente di mal di stomaco ed emorragie interne, molto probabilmente a causa della tisi che tutte le sorelle Brontë avevano contratto.
Charlotte scrive incessantemente agli editori per far pubblicare i suoi romanzi e quelli delle sue sorelle, sempre sotto pseudonimo, ignorando i pregiudizi sulla scrittura al femminile che infestavano la società vittoriana, e lo fa con grande dedizione finchè non vedrà pubblicato “Jane Eyre”, un anno dopo la morte della sorella Emily e in quello della morte di Anne, romanzo che le darà una certa, piccola fama, proiettandola finalmente al di fuori, molto poco al di fuori, dall'angusta cerchia di Hawhorth, di quella canonica con un cimitero al posto del giardino, che ancora oggi esercita un fascino irrisistibile su tutte le ragazze che per la prima volta leggano Wuthering Heights.
Non me ne voglia Charlotte Brontë, se le preferisco la sorella Emily per il suo cupo, perverso e brutale romanzo d'amore, per l'aver inventato un maschio come Heathcliff e una fanciulla come Cathy, perché sono certa che senza la forza e la determinazione della piccola e brutta Charlotte Cime Tempestose non avrebbe mai visto la luce.
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