Cucchi, un canzoniere per attraversare cinquant’anni di poesia

di MARY B. TOLUSSO
Più di cinquant'anni di poesia: dagli inediti giovanili (1963) al "Disperso" (1976) passando attraverso a "Per un secondo o un secolo" (2003) fino a "Malaspina" (2013), si assiste così a una delle voci più complesse del panorama poetico italiano: Maurizio Cucchi. Un canzoniere ma anche un romanzo, così Alberto Bertoni ne definisce l'opera nel nuovo Oscar "Maurizio Cucchi. Poesie 1963-2015" (Mondadori, pag. 386, euro 13,00).
Un viaggio realistico, visionario, filosofico, ma un viaggio che riesce a coniugare alcuni paradossi: realismo sì, ma realismo visionario; autobiografia, ma impersonale; nichilismo, ma su possibili sponde di un linguaggio colloquiale che raggiunge però una dimensione etica elevatissima, umile ed eroica. La lettura ci suggerisce lo stravolgimento rapido dei soggetti (prima, terza, seconda persona), per poi continuare nello sgretolamento dell'io. Con "Glenn", "Donna del gioco" e "Poesia della fonte", Cucchi sembra concedersi di più, a noi lettori e a se stesso, facendo trapelare alcune incognite poetiche delle precedenti raccolte. Il poeta parla a sé e a tutti e parla di sé e di tutti, traendo ispirazione da un fatto preciso (la scomparsa del padre) che nel gioco metaforico di slittamenti identitari detta l'inizio e la continuità della sua opera.
Non siamo di fronte a una diaristica messa in verso, ma a quella regola basilare per evocare una qualche autenticità, ovvero la necessità di un elemento biografico di poetica che diviene, altrettanto necessariamente: collettivo. Ma qualcosa non si lascia prendere, qualcosa sfugge e degenera: "La prosa è infida: nasconde/ confini traboccanti d'insignificanza". Con "Per un secondo o un secolo" (2003) la poesia si fa più materica. Anche il paesaggio "vede", si fa materia nella mente nel flusso di immagini quotidiane. La salvezza, forse, sta anche nelle molteplici proiezioni del nostro io che vanno, inevitabilmente, a formulare un "noi". Una sorta di autocoscienza frontale, fino alla scarnificazione dilatata tra verso e prosa, dal primo romanzo "Il male è nelle cose" (2005) a quel doppio che troviamo in "Giovanna d'Arco" piuttosto che in Gilles de Rais (il sadico Barbablù), compagno d'armi di Giovanna d'Arco e quindi sintesi perfetta del doppio, di un bene incalzato dal male. Come se il precisarsi dell'uno rendesse più puro il contorno dell'altro, in un conflitto privo di trionfi definitivi. Non c'è mai un soggetto compiuto, in Maurizio Cucchi. Una formula che possiamo applicare anche alle ultime produzione in versi, soprattutto in "Vite pulviscolari" (2009), quasi delle monadi polverizzate, paradossalmente meno infelici perché più rassegnate. Più lucide. Meno spaventate: "Potessi darmi un valore / che non fosse pulviscolare…". Insomma se in fondo nel suo ultimo viaggio Glenn si era risolto (e con serenità commossa), ora la questione si complica di nuovo, con più tranquillità, d'accordo, ma resta il fatto che siamo di fronte a un nuovo incipit, a nuove realtà pregresse. A una nuova revisione dell'io che, in qualche misura, trova più leggerezza nell'ultimo "Mala. spina" (2013).
Si riformulano dei nuovi nuclei strutturali, geografici e psicologici, dietro cui il lettore è partecipe di ritratti e profili, di un campionario umano stravagante e complice. Così Anita Bellingeri o Guido Keller o il Capitano di lowryana memoria, sono i nuovi doppi, anti eroi che ci restituiscono più calme inquietudini. La lucidità si fa più efficace e detta quasi il codice dei componimenti sulla soglia del nuovo secolo. E Malaspina, appunto, non è certo quel lago lombardo di elegiache memorie, ma un'interfaccia, un punto, un'area sulla quale due dimensioni differenti si incontrano, una porta attraverso cui tutto pare dirci che per aderire alla vita, "noi caduchi transeunti", dobbiamo sentirne la fine.
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