Da Ferragamo a Margiela scarpe e abiti nei musei fanno tutta un’altra moda

di ARIANNA BORIA
Anita Pittoni designer, interprete del manifesto della moda femminile futurista: forme nuove e materiali poveri. Germana Marucelli, la sarta intellettuale di Milano, che nel 1965 trasferisce sul corpo le sperimentazioni cinetico-visuali dell’artista udinese Getulio Alviani e inventa la linea “optical”. Mila Schön ispirata dai tagli di Lucio Fontana e dai “mobiles” dell’americano Calder, riportati su stoffa in una collezione di fine anni Sessanta in cui si fondono geometrie e minimalismo.
Il complesso rapporto tra arte e moda continua a ispirare interpretazioni. E la moda, senza complessi di inferiorità, a entrare nei grandi musei del mondo, dove si mette in dialogo con pittura, scultura, cinema, architettura, artigianato e design per leggere il tempo in cui viviamo e comprendere meglio il passato. Da oggi, a Firenze, al Museo Salvatore Ferragamo, capofila di un’operazione espositiva cui partecipano quattro istituzioni pubbliche, si apre una mostra tutta dedicata a questo tema, “Tra arte e moda”, dove, nei vari spazi, sono molti i riferimenti e gli intrecci con stilisti e artisti del Friuli Venezia Giulia: Alviani ma anche Gillo Dorfles, amico della Marucelli, la Pittoni, con i suoi “straccetti d’arte”, che fa parlare di sè sui giornali, la dalmata Mila Schön e la sua moda purista nutrita del segno dei contemporanei.
Il progetto espositivo, curato da Stefania Ricci, direttrice del Museo Ferragamo, dalla storica della moda Enrica Morini, da Maria Luisa Frisa, critica della moda e direttrice del corso di laurea in Design di moda dello Iuav di Venezia, e da Alberto Salvadori, direttore del Museo Marino Marini di Firenze, prende le mosse proprio dal rapporto dello stesso Ferragamo con gli artisti, che ispirarono i suoi modelli e le sue invenzioni. «Non è così scontato che istituzioni pubbliche e private si mettano in rete per una riflessione comune», dice Ricci. «Per noi è un risultato molto importante, di cui siamo orgogliosi, anche perchè ci teniamo a interagire col territorio e a valorizzare le sue splendide collezioni».
A palazzo Spini Feroni, storica sede della maison in via Tornabuoni, una videoinstallazione mette a confronto le calzature con i loro riferimenti, il mondo classico, l’oriente, le avanguardie artistiche del ’900, il surrealismo, intrecciati con la cultura artigiana fiorentina. Nella sala sono esposti anche i bozzetti pubblicitari originali firmati dal futurista Lucio Venna per promuovere le scarpe Ferragamo, i modelli relizzati per intellettuali e artisti e il dipinto di Kenneth Noland del 1958, “Senza titolo”, che il “calzolaio dei sogni” tradusse in elemento decorativo per le décolleté “Tirassegno”.
Racconta Stefania Ricci, a proposito della pionieristica frequentazione di artisti da parte del fondatore: «In mostra manca solo il ritratto fatto a Ferragamo da Pietro Annigoni, che lo rappresenta come un pittore ottocentesco, con il foulard, la giubba di velluto, un bohémien. Non l’ho neppure chiesto alla signora Wanda, vedova di Salvatore, so che le dispiace separarsene. Negli anni ’40 Annigoni aveva uno studio a palazzo Feroni e curò il packaging e l’immagine grafica della maison. Ferragamo, da parte sua, aiutò l’artista a entrare nel mercato inglese. All’epoca aveva già un negozio in Bond Street, a Londra, frequentato dalla famiglia reale e da tutte le celebrità».
Dalla “bottega” di Ferragamo, in cui, come in quelle rinascimentali, creatività e tecnica erano inscindibili, il progetto espositivo, in otto sezioni, mette a fuoco via via collaborazioni, sovrapposizioni, contaminazioni tra arte e moda. Dalle esperienze dei Preraffaelliti al Futurismo, dal Surrealismo alla Radical Fashion, dal mantello realizzato dalla sarta Rosa Genoni per l’Expo del 1906, ispirato al Pisanello, fino ai contemporanei Martin Margiela, Viktor & Rolf, Chalayan con le loro complesse narrazioni visive, il percorso si sofferma, tra molti altri stimoli, su alcuni atelier degli anni ’50 e ’60, come quello di Germana Marucelli e di Mila Schön, dove designer e artisti si confrontavano e scambiavano esperienze, in una sorta di salotto culturale ricco di spunti e fermenti.
Dal sodalizio di Marucelli e Alviani (una delle “power couples” nel territorio condiviso tra arte e moda, come dice Maria Luisa Frisa) nacquero i vestiti optical, indumenti che generano immagini in continuo divenire (in mostra ce ne sono tre). Nel 1969 fu il triestino Gillo Dorfles, amico di entrambi, a curare alla Galleria del Naviglio di Milano, una mostra che focalizza il senso di questo, vicendevole, incontro tra creatività e manualità, in cui ciascuno dei due partner aggiunge qualcosa di proprio nell’assumere il lavoro dell’altro: “Germana Marucelli creatrice di moda e Getulio Alviani ideatore plastico”. In quegli stessi anni, Mila Schön, attraverso l’amico fotografo Ugo Mulas, si avvicinava all’arte di Fontana e di Calder, ne assorbiva le provocazioni: in mostra a palazzo Feroni si vedrà un abito di proprietà di Valentina Cortese nato dalla fascinazione della designer per i “mobiles”.
In un allestimento costruito attraverso abiti, accessori, tessuti, dipinti, immagini, libri e periodici, sono molti i prestiti eccellenti di musei e collezioni private, italiane ed estere: dal Philadelphia Museum of Art arriva a Firenze l’abito realizzato da Elsa Schiaparelli insieme a Salvador Dalì, dalla Fondazione Bergè-Saint Laurent quello di Yves ispirato ai dipinti di Piet Mondrian, dal Kyoto Costume Institute il corpetto di legno di Hussein Chalayan e dal museo del Fit di New York un modello firmato Jun Takahashi (Undercover). E ancora, i ritratti fotografici di Andy Warhol, “Altered Images” prestati dallo Studio Makos, “Fertility” di Keith Haring, da una collezione privata, il trittico di Yasumasa Morimura, “Portrait (La source 1,2,3)” dall’Art Museum di Takamatsu, pezzi dal ModeMuseum di Anversa e dal Museum Boijmans Van Beuningen di Rotterdam.
Da via Tornabuoni, l’esposizione si dipana in altre quattro sedi: la sala del Fiorino delle Gallerie degli Uffizi e la Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, dove, fino al 24 luglio, si ammira l’«Ottocento alla moda», e la Biblioteca nazionale centrale di Firenze con i “Periodici italiani del Novecento. È qui che trovano spazio articoli e foto dedicati alla proto-designer Pittoni, che - come ha testimoniato la mostra su Anita futurista da Drogheria 28 a Trieste nel 2015 - ricevette da Ferragamo, il 2 febbraio 1949, una lettera di invito a partecipare alla rassegna internazionale di moda del Maggio fiorentino (“Vorrebbe conoscere Christian Dior?”, le scrive lui), quando ormai l’artigiana pensava di lasciare il design per l’editoria. Anticipa Ricci: «Stiamo pensando già alla mostra del prossimo anno. Ferragamo tornò in Italia dall’America nel 1927 e noi vorremmo esplorare che cosa accadeva in Italia e oltreoceano in quegli anni, dedicando uno spazio significativo all’esperienza di Anita Pittoni».
Le ultime due tappe dell’allestimento sono ospitate al Museo Marino Marini e al Museo del Tessuto di Prato. Nel primo (fino al 31 luglio) si raccontano le “collaborazioni” tra arte e moda a partire dagli anni ’80, quando i confini tra i due ambiti cominciano ad attenuarsi e le istituzioni d’arte si aprono agli stilisti: il Metropolitan di New York nel 1983 a Yves Saint Laurent, Palazzo Strozzi a Firenze, nel 1985, proprio a Salvatore Ferragamo.
A Prato, infine, fino al 19 febbraio 2017, si può visitare “Nostalgia del futuro nei tessuti d’artista del Dopoguerra”. In questo spazio si celebra l’arte “totale”, quando, nelle Triennali degli anni ’50, gli artisti partecipavano con disegni per la stampa su stoffa ai concorsi banditi dalle aziende tessili e si misuravano con l’estetica applicata al quotidiano. A Venezia, Carlo Cardazzo nella Galleria del Cavallino lanciava i foulard d’autore, opere d’arte da mettersi addosso firmate da Capogrossi, Campigli, Fontana, Saetti, Scanavino, Marino Marini, Edmondo Bacci e Roberto Crippa: li vedremo in mostra vicino agli arazzi di Chighine, Bordoni, Atanasio Soldati, Bozzolini e del triestino Guido Marussig, pittore e incisore, l’amico che D’Annunzio chiamò a decorare il Vittoriale.
Nel suo saggio in catalogo, Frisa cita le parole del curatore della I Biennale di Firenze nel 1996, Germano Celant, illuminanti, anche dopo vent’anni, per togliere di mezzo qualsiasi tentazione di stabilire rapporti di sudditanza tra arte e moda: «Il colpo di forbice è simile a un colpo di macchina fotografica e cinematografica, a un colpo di matita o di pennello... Il taglio mette fine alla rappresentazione tradizionale dell’immagine, la disintegra e la restituisce come testimonianza del vedere e del capire l’artista. Se questo è vero, il taglio dà significato e il suo uso accomuna artista e fotografo, designer e sarto che ritagliano una visione dal magma delle materie: siano esse il colore e il bronzo, la stoffa e la pellicola, i metalli e le lane, il legno e la tela».
@boria_a
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