Dumbo vola sulle ali della diversità Torna il mondo magico di Tim Burton



Un circo scalcinato e fatiscente fatto d’incantatori di serpenti e misteriosi illusionisti, solitarie sirene extralarge immerse a cantare sott’acqua, uomini forzuti che fan anche da contabili e dove, delle ex star, uno è scappato con la donna barbuta, l’altro è un cavallerizzo triste tornato dalla guerra senza un braccio. Fenomeni da baraccone, personaggi impossibilitati a vivere in una società “normale”: tipi strambi, emarginati, freaks. E chi se non il cantore della diversità per antonomasia, per di più dotato di un’indole visionaria e immaginifica che ancora oggi non ha trovato eguali nel panorama cinematografico internazionale come il 60enne regista Tim Burton, poteva aderire così intimamente al tema portante di “Dumbo”, ovvero la celebrazione e la ricchezza della diversità? Così, dopo “Alice in Wonderland”, eccolo per la seconda volta tradurre i tratti stilizzati dell’amato classico d’animazione Disney del 1941 in live-action, con attori in carne ed ossa e animali ricreati in Cgi.

A partire dal suo irresistibile baby-protagonista, il piccolo Dumbo. Che diverso lo è già sin dalle prime ore di vita, quando fa capolino da un bozzolo di paglia in cui, timido, si è avvolto. Subito schernito dai più perfidi e mandato a farsi sbeffeggiare nel tendone come clown, mentre le altre bizzarre creature circensi, consapevoli del significato di essere outsider, proveranno un senso di fratellanza. A differenza dell’originale, l’interpretazione di Burton comporta che gli animali, mamma Jumbo in testa, siano muti, come anche introduce personaggi nuovi di zecca, a partire da Holt (Colin Farrell), mutilato del braccio e poco in sintonia con i figlioletti (bravi Nico Parker e Finley Hobbins, al debutto sullo schermo). Preoccupato per le sorti degli artisti decimati da una letale influenza il proprietario del circo (Danny DeVito, come sempre all’altezza) cederà alle lusinghe del persuasivo imprenditore Vandevere (un Michael Keaton mellifluo e perfido) consegnandogli la carovana per il suo sfavillante Dreamland, sorta di macchina di sogni dove Dumbo si esibirà volando insieme alla seducente trapezista Colette (Eva Green, ormai attrice feticcio burtoniana). Sogni che si tramuteranno però in incubi, e dove Burton libera a briglie sciolte la sua poetica più classica calandosi nel lato oscuro che si cela dietro le facciate più scintillanti: un leit motiv del suo cinema sin dagli esordi.

Uno degli aspetti più centrati di “Dumbo” è proprio quest’armoniosa fusione tra realismo e artificio. Da un lato ai Pinewood Studios di Londra sono stati costruiti un circo dei primi’900, a evocare un mondo che scompare, decadente e magistralmente illuminato di chiaroscuri tanto che sembra di respirarne polvere e miserie e, a contrasto, la mirabolante, futuribile Dreamland, con le sue attrazioni mai viste e i suoi antesignani robot, che da meraviglia agli occhi dello spettatore virerà gradatamente ai suoi aspetti più gotici e dark. Su questo impianto s’innesta la parte “sintetica” dell’interazione dei characters animali, con tecnologie spinte all’asticella più alta: il climax sta nel tratteggio del piccolo eroe, dotato di una mirabile sottigliezza espressiva e di stupefacenti sfumature di sguardi lungo quello che è il suo ricco viaggio emozionale. Preparare i fazzoletti!



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