E così l’amico sbruffone finisce accoltellato tra lance e alabarde

Di primo pomeriggio Giorgio incedeva stancamente per la lieve salita pavimentata a pietra verso il Castello di San Giusto. Dopo giorni di pioggia sul colle più imponente di Trieste si cristallizzò una bella giornata tardo primaverile, che invogliava alla spensieratezza, ma lui era inquieto. Doveva incontrare un ex amico che ce l’aveva fatta, come lo chiamava in cuor suo e che non vedeva da anni. Ma Giorgio lo disprezzava, perché lo riteneva uno spietato opportunista, insensibile e a tratti addirittura malvagio. Ma in fondo lo sapeva che la sua era solo invidia verso uno che aveva avuto successo, dove lui aveva fallito. Perché Ettore, così si chiamava l’odiato ex amico, era un imprenditore affermato, lui invece, che aveva tentato la sua stessa strada professionale, aveva fatto fiasco quasi prima di incominciare.

Giorgio, dopo una serie di fallimenti, diventò così un oscuro impiegato in un oscuro ufficio in cui spese due decenni della sua oscura vita prima di diventare pensionato anzitempo per esubero di personale. Comprensibilmente era sempre al verde e per arrotondare – malamente – la misera pensione speculava con oggetti d’antiquariato, che comprava e poi rivendeva. Il suo unico hobby era bighellonare per i musei, sempre gli stessi, in cui entrava con la tessera di pubblicista scaduta, regalatagli da un conoscente. Gli addetti alla biglietteria facevano finta di niente e lo lasciavano entrare per compassione, perché i suoi abiti lisi parlavano da soli. Lui negli austeri saloni ammirava gli oggetti che poi, magari simili, ma comunque brutte copie senza valore, comprava in qualche polverosa bottega per perpetuate i suoi miseri affari.
Giorgio stringeva nella larga tasca del vetusto giubbotto, macchiato dal tempo, panchine dei parchi e tavoli delle osterie, avvolto in un sacchetto di plastica, un pugnale appena comprato, che era, secondo lui, la copia esatta di un pugnale esposto nel museo delle armi del castello.
appuntamento nei corridoi
L’appuntamento era proprio nei corridoi dell’armeria pieni di fucili, alabarde, balestre, baionette e fiaschi da polvere ed era in largo anticipo. Con l’ennesima visita degli oggetti a lui cari voleva distrarsi e mitigare la sensazione di umiliazione che lo attanagliava già dal primo mattino. Come al solito non aveva i soldi per l’affitto e il padrone aveva minacciato seriamente di sfrattarlo. Perciò voleva vendergli un pugnale, a dir suo, straordinario e di immenso valore, che aveva scovato su una bancarella in Friuli, ben sapendo che anche Ettore era un patito di vecchie armi.
Giorgio era nervoso e tormentava il manico del pugnale attraverso la plastica, ma quando inavvertitamente toccò la sua superficie scoperta, nella sua testa cominciò a vorticare un brusio sempre più intenso. Per bloccare questo insistente tamburellare sopra la nuca, fece alcuni passi agitando le mani, come volesse scacciare degli insetti.
Allora lo sommerse una risata aperta e sarcastica, seguita da una voce a lui nota: «Che tu fossi matto lo sapevo, ma questa poi…». Si voltò e vide Ettore che, appena arrivato, contemplava quella scena per lui esilarante, ma per Giorgio tremendamente imbarazzante.
Vedendosi scoperto, lo guardò storto, pensò “peggio di così non poteva incominciare”, e dopo i convenevoli in cui si sentiva piccolo e inadeguato davanti a una persona visibilmente soddisfatta e sicura di sé, emise senza preamboli: «Ho qualcosa di molto interessante per te… Puoi seguirmi fino a quella vetrina?».
Giorgio fece alcuni passi e fermandosi infine davanti a una vetrina di spade e pugnali, raccolse tutta la sua disinvoltura e proferì: «Vedi quel pugnale da caccia con fodero, usato da sovrani e principi, regale ed elegante lì al centro, in bella mostra? È un oggetto di estremo valore, e chiaramente introvabile… Ebbene… Io ho un pugnale ancora più bello e antico e forse potrei anche venderlo a un amico come te…». Ettore restò esterrefatto, ma Giorgio non gli lasciò il tempo per pensare e tirò fuori dalla tasca il pugnale, porgendoglielo con orgogliosa enfasi. Ettore lo prese in mano, lo girò e rigirò, quindi si mise a ridere sguaiatamente. «E questo sarebbe di estreeemo valore? Estreeemo», gli fece il verso, guardandolo con compassione e una punta di disprezzo. «Povero Giorgio, il mio amico sfigato…».
come un fiume in piena
Giorgio arrossì violentemente, ma Ettore, rabbuiatosi improvvisamente, era ormai un fiume in piena: «E tu mi fai perdere tempo per una sciocchezza simile? Sai che il tempo è denaro? Ma tu sei sempre stato un perdente già da giovane, quello che prendevamo in giro e neanche te ne accorgevi, e se guardavi una ragazza, te la portavamo via per dimostrarti che eri una nullità, e vedo che non sei cambiato per niente: sei vestito da straccione, che mi vergogno a parlare con te, e usi trucchi da baraccone per racimolare due lire…». Giorgio cercò di biascicare qualcosa, ma Ettore non lo lasciò parlare: «Ma guardati allo specchio, pezzente, torna alle stalle, da dove sei venuto, che io vengo dalle casate… i miei antenati erano dei Baseggio che i tuoi erano probabilmente dei… borseggio…». Ettore si mise a sghignazzare volgarmente alla propria battuta e nel cervello di Giorgio montava un brusio inarrestabile, un brusio di morte… D’improvviso il suo corpo fu pervaso da tremore, accompagnato da dolori al petto, sudore e senso di mancamento, tanto che appoggiato il pugnale sull’attiguo cassone medievale, riuscì a malapena a proferire: «Aspetta un attimo, devo prendere un po’ d’aria che mi gira la testa, torno subito…». Mentre si allontanava, Giorgio fu inseguito da parole vaganti e ostili, «va, vai, sfigato, vai che è meglio…», e con difficoltà riuscì a scovare il bagno. A lungo si sciacquò la faccia con l’acqua fredda e il brusio piano piano lo abbandonò. Si guardò sconsolato nello specchio cercando di andare oltre quel volto da vecchio che si ritrovava, infine sospirò e finalmente si decise a tornare sui suoi passi. C’era uno strano silenzio nell’armeria e quando entrò nel salone illuminato dal debole sole, che rifletteva anacronistici rettangoli di luce sulle lance e alabarde, il grido disperato, che voleva esplodergli in petto, gli si bloccò in gola. Ettore giaceva in una pozza di sangue con l’espressione stupefatta di un morto che pensava non dovesse morire mai!
lo fissò impietrito
Giorgio lo fissò impietrito, quindi, come destato da un tremito, si riscosse, si guardò intorno e a passi incerti uscì dal museo, che a quell’ora era desolatamente vuoto. Nel Cortile delle Milizie si sentì perduto. Che fare? Una fitta nebbia si allargava nel suo cervello e più lui si ripeteva “devo pensare, devo pensare, devo pensare”, più non ce la faceva proprio a far azionare il cervello. Sapeva soltanto che non doveva destare sospetti, correre, fare gesti inconsulti, uscire agitato dal castello, che la polizia come prima cosa avrebbe chiesto a tutti se avessero visto qualcuno allontanarsi in fretta giù per la discesa della fortezza. Mentre con finta indifferenza vagava per l’ampio cortile, quasi senza accorgersi si trovò davanti all’entrata del Museo dell’immagine Alinari dalla parte opposta del piazzale. D’istinto si decise a entrare, memore delle sue rassicuranti sale dalla luce soffusa. Salutò sommessamente il custode che non si degnò nemmeno ad alzare lo sguardo dal computer, e cominciò ad aggirarsi per le sale.
Per un attimo si fermò a guardare il video di un tale che, evidentemente un famoso fotografo, viaggiava in qualche remota giungla con la canoa sotto una cascata, riprendendo tutto con una rudimentale telecamera. Giorgio si perse in quella cascata pensando alla sua vita buttata – anche lui voleva diventare un esploratore dei più arcani luoghi della terra – quando il suo sguardo fu attirato dalla soglia che porta al Bastione Fiorito, abbandonato ormai da anni. Allora un lampo gli trafisse la mente, “e se mi nascondessi lì?”. Passò di nuovo davanti all’addetto del museo, che non mosse nemmeno un muscolo, perso nella luce invadente dello schermo, e senza fare rumore aprì l’uscio. Allora gli si strinse il cuore, vedendo il degrado in cui versava la piazzola del Bastione Fiorito, dove tanto tempo prima sedeva sovente ai tavolini con gli amici a prendere una bibita ghiacciata con lo sguardo che spaziava prodigo su Trieste e il suo sconfinato mare. Si sedette sulle erbacce e il suo ricordo vagò a ritroso per decenni, rammentandosi come in una bella giornata primaverile, simile e questa, stava cercando a un tavolino, che allora doveva trovarsi proprio qui nelle vicinanze, di conquistare una ragazza che gli piaceva proprio tanto. Senza accorgersi, appoggiò la testa sull’erba brulla e inopinatamente si addormentò con il sorriso sulle labbra. Chiaramente non poteva accorgersi che il custode lo fissava a lungo attraverso i vetri con occhi cupi e sospettosi…Quando Giorgio si svegliò di soprassalto, l’aria era frizzante e la luce obliqua. Si guardò attorno e subito ripiombò nell’incubo. Ettore in una pozza di sangue e lui, suo malgrado, nella veste di fuggitivo! Si alzò e con prudenza, cercando di non fare rumore, spinse la porta del museo. Quando entrò di soppiatto, improvvisamente rimbombò una voce imperiosa: «Arrestatelo!». Giorgio chiuse gli occhi e in un attimo si accorse di non avere più la forza di lottare, tanto la sua vita, che gli sembrò passare davanti in un attimo come ai moribondi, l’aveva già irrimediabilmente sprecata. Subito dopo li riaprì e nel momento in cui vide due poliziotti che gli si avvicinavano con le manette in mano, sentì il graduato, probabilmente il commissario di turno, inveire severamente: «Non lui, … lui!», indicando… l’allibito addetto del museo. Il custode trasalì, balbettò qualcosa, per un attimo volse istintivamente uno sguardo sfuggente, ma intenso, alla scrivania, e biascicò: «Ma siete pazzi! Non potete… è uno sbaglio…». Ma il commissario, quasi seccato, proruppe: «Basta, basta! Portatelo via!», quindi, molto più gentilmente, si rivolse a Giorgio, che pareva stesse quasi per svenire: «Signore, penso che le devo delle spiegazioni…». Quindi… sorrise. Quando il custode fu portato via, il commissario invitò Giorgio, che ancora lo fissava incredulo, incapace di proferire parola, a sederglisi accanto. La parola la prese lui, quasi volesse tirare un lunghissimo sospiro di sollievo, fatto di frasi vertiginose a stento represse: «Caro signore, adesso si calmi, così potrò spiegarle tutto…».
lo guardò con condiscendenza
Il commissario lo guardò con condiscendenza e cominciò: «Beh, abbiamo avuto fortuna e adesso posso dire che tutto sommato è stato abbastanza facile, anche se all’inizio sembrava un caso complicato. Ma la situazione si è sbrogliata solo nel tardo pomeriggio. Quando ormai brancolavamo nel buio, ci telefonò proprio il custode dell’Alinari, informandoci concitato che l’assassino – disse proprio così – stava dormendo placidamente sul Bastione Fiorito! Poi ci spiegò che, subito prima di chiamarci, lo aveva chiuso fuori a chiave e incominciò a spiegarci la sua versione. Ci disse che, quando stava tornando dalla segreteria del museo, dove doveva ritirare dei depliant, sentì nell’armeria un violento vociare, ma quando si rese che era solo un alterco tra amici, non se ne curò, e tornò al Museo Alinari, dove era di turno. Prima ignorò il fatto, ma quando si diffuse la notizia del delitto, ci volle assolutamente informare che quello che aveva litigato con la vittima si era rifugiato proprio lì, al Bastione Fiorito dove, appunto, si era messo a dormire. Aggiunse che dovevamo fare presto, perché si sarebbe svegliato da un momento all’altro…». Il poliziotto prese fiato, e continuò più rilassato: «Beh, il custode mi insospettì subito. Perché non aveva denunciato subito la lite? Perché era tanto ansioso da ripetere per ben tre volte “lo arresti subito”, e soprattutto, nella foga gli sfuggì la frase, “è stato lui che ha accoltellato il vecchio”. Come poteva sapere dell’accoltellamento?». Il commissario tacque un istante e fissò un punto lontano: «Il resto è facilmente intuibile. Quando udì il diverbio, capì che qualcuno stava tentando di vendere a un altro un oggetto di valore, forse un’arma antica. Allora tese le orecchie e quando probabilmente uno dei due si allontanò un attimo, lui si avvicinò all’altro e vide l’arma, e allora pensando fosse preziosa, tentò di impadronirsene. Ne nacque una colluttazione, in cui uccise l’uomo e prese il corpo contundente, probabilmente un pugnale…». Giorgio lo squadrò interrogativo, ma il poliziotto non si lasciò distrarre: «Ah, sì, quasi dimenticavo la prova decisiva: il suo sguardo di paura, quasi di terrore, verso la scrivania, quando siamo venuti ad arrestarlo. Uno sguardo che non mente… Ma subito le sarà tutto chiaro». Il commissario allungò la mano, e quando aprì il cassetto della scrivania si materializzò il pugnale ancora insanguinato… Allora Giorgio gridò: «Chiuda, per favore, chiuda!». D’improvviso il brusio nella testa lo assalì con violenza raggiungendo punte talmente insopportabili che gli sembrò di impazzire… —
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