E il Wild West Show in trionfo a Trieste irritò gli irredentisti

di RENZO S. CRIVELLI
Cento anni fa - il 10 gennaio 1917 - moriva a Denver, Colorado, Buffalo Bill, uno dei personaggi mitici che hanno legati il loro nome all'epopea del West e che hanno inventato un elemento mediatico colossale, entrato con il suo famossimo Wild West Show, nella storia della cultura di massa mondiale. E val la pena ricordare che, in quella sua serie memorabile di tour europei, figura anche la città di Trieste, dove arrivò il 13 maggio 1906.
Ecco, dalla cronaca del tempo (“Il Piccolo”), di che cosa si trattava: «Il treno ferroviario di Buffalo Bill, composto da 49 vetture, è veramente una curiosità del genere. Questo treno che durante i viaggi viene diviso in quattro, si compone di grandi e lunghi carri scoperti, a otto ruote, di carri coperti capaci da 40 a 50 cavalli e di vetture di prime e seconda classe per passeggeri, infine di due "sleeping cars" per il colonnello Cody e per il suo stato maggiore. Nei vagoni scoperti vengono caricati tutti i carri con il materiale per l'erezione della grande arena, i carri contenenti le macchine per la produzione dell'energia elettrica, il carro contenente la cucina a vapore, quello contenente gli strumenti musicali, gli altri ruotabili, i tre cannoni, gli omnibus e il famoso "Mail Coach" e la diligenza che il colonnello Cody custodisce come reliquie».
William F. Cody, detto Buffalo Bill, il grande cow boy leggendario per le sue gesta e per il suo coraggio, acclamato dal pubblico americano ed europeo, era nato nello Iowa nel 1846 e aveva servito nell'esercito americano (nel Quinto Cavalleria di cui era "scout") procurandosi elogi e riconoscimenti per la sua (vera o supposta) temerarietà. Quando arriva a Trieste, con tutto il suo apparato rappresentativo, ha sessant'anni e quindi non è più un ragazzino. Ma ciò nondimeno è all'apice della sua fama in quanto uomo di spettacolo. Come ricorda Giorgio Stern nel suo bel volume “Buffalo Bill a Trieste” (Edizioni La Mongolfiera), il colonnello ha sempre saputo coniugare assai bene la storia americana e il palcoscenico, sin da quando, a partire dal 1872, ha fatto la sua prima apparizione in teatro recitando se stesso in “L'esploratore delle praterie”, per poi elaborare il progetto del Wild West Show: una sorta di "ricostruzione" scenica del selvaggio West con cow boys e indiani veri.
Nel secondo tour degli inizi del secolo Ventesimo, il famoso spettacolo arriva a Trieste, nell'ambito di un programma che lo porta dapprima in nord Italia (con tappe a Torino, Novara, Milano, Verona, Padova, Udine) e poi verso l'Europa dell'Est. Le date delle esibizioni sono quelle del 13, 14 e 15 maggio 1906, e il convoglio, arrivato il 12 alle sei di mattina, si trasferisce dalla stazione delle Ferrovie Meridionali - bloccando il centro cittadino tra ali di curiosi - nella zona, allora periferica, dei Fondi Wildi, situati alla fine di via Rossetti tra Chiadino e Rozzol. Il luogo si presta assai bene all'accampamento di una troupe di 800 persone (cento sono i pellirossa) con ben 500 cavalli; e il terreno, spianato, può facilmente ospitare vaste strutture di accoglienza per il pubblico (sono previsti 12mila posti a sedere).
«La compagnia di Buffalo Bill - scriveva “Edinost” - consuma al giorno 800 kg di carne, 1.000 kg di pane, 400 kg di patate, 60 kg di burro, 150 kg di zucchero, 700 kg di verdure, 320 litri di latte e 1000 litri di caffè e tè». Per non parlare dei materiali necessari per la costruzione del "campo": «1.300 pioli, 4.000 pali, 30.000 metri di corda, 20.000 metri quadrati di tela da tenda e circa 10.000 pezzi di ferro e legno».
Gli spettacoli previsti nei tre giorni successivi sono ben sei, al pomeriggio e alla sera (ecco il perché dell'apparato elettrico). E non ci sono dubbi, la gente accorre numerosissima al prezzo di due corone, sino a saturare i posti previsti (si può dunque calcolare una cifra totale di oltre 70mila spettatori: un fatto, per quel tempo, eccezionale). Ciò è anche dovuto alla straordinaria pubblicità che il Wild West Show ha saputo costruire intorno a sé. A parte i comunicati-stampa che anticipano l'arrivo della troupe, va ricordato che il convoglio di Buffalo Bill contiene una piccola tipografia e un ufficio informazioni (tutte cose che per quell'epoca, in un Europa ancora arretrata, erano fantascientifiche).
Ma veniamo ai tanto attesi show del Wild West. «Il colpo d'occhio dell'arena è veramente grandioso... Alle vertiginose cariche di cavalleria - si legge nel resoconto del “Piccolo” del 14 maggio 2006 - nelle quali "cow boys" e messicani dello Stato di Montezuma danno prova di sorprendente abilità nel raccogliere da terra, alla carriera spiegata dei loro cavalli, fazzoletti ed altro oggetti e nel gettare il "lasso", seguono poi un convoglio di pionieri che, nell'attraversare la Prateria, è assalito nel suo campo notturno dai pellirosse e combattimenti fra i selvaggi e la cavalleria americana". A parte l'uso del termine "selvaggi" che rivela lo stereotipo "razzista" dell'approccio alla cultura indiana di quel tempo, il cronista rivela un entusiasmo travolgente nella sua descrizione. Passa poi, dopo aver ricordato i continui movimenti di massa davanti ad un pubblico che urla per l'emozione, alle scene di attacco a diligenze postali da parte degli indiani, alle manovre di artiglieria con cannoni veri che sparano a salve, alla ricostruzione della battaglia di Little Big Horn, alla bravura equestre dei cosacchi del Don, ai pezzi acrobatici di artisti giapponesi e arabi, agli esercizi militari degli Zuavi con percorsi di guerra. Ma il momento clou, senza dubbio, è quello in cui compare lui, il grande Buffalo Bill, in una coreografia studiatissima.
La gente balza in piedi, finalmente Buffalo Bill si mostra e si presta al suo bagno di folla, maestoso sul suo cavallo con bardature e il tipico giubbotto "sfrangiato", come appare da alcune rarissime lastre scattate da un anonimo triestino dell'epoca. «Applauditissimo il colonnello Cody, nei suoi stupefacenti esercizi di tiro al cavallo, con una carabina Winchester egli colpisce, quasi ad ogni tiro, alla corsa, delle piccole palle, che gli vengono lanciate da un indiano che gli cavalca a lato»: così il cronista (che non manca di puntualizzare qualche smagliatura nella precisione di mira dell'attempato "cow boy"), ma il resto lo fa il pubblico, che rappresenta se stesso in una kermesse stupefacente, partecipando ad ogni evento. Lo stupore, occorre ricordarlo, comprende anche, oltre all'impatto con la "tecnologia" statunitense di cui si è parlato, quello con il multirazzismo della carovana (americani, indiani, giapponesi, arabi, slavi).
Un fatto che, a dire il vero, crea qualche imbarazzo negli ambienti irredentisti triestini, alimentando una polemica in verità un po' sterile. Scrive infatti “L'indipendente”, il giornale irredentista triestino, a proposito dei manifesti affissi sin dal 6 maggio e delle locandine preparate dalla troupe, che il Comune ha avuto torto a non dire chiaramente agli agenti della Compagnia di Buffalo Bill che «nella città nostra non si affiggono che gli avvisi in lingua italiana, essendo del tutto inutili quelli stilizzati in altre lingue; e tale avvertimento doveva ritenersi doveroso, poiché si trattava di gente che, non conoscendo le nostre condizioni, poteva ben facilmente essere indotta in errore». Si può capire la cautela degli irredentisti, che si sentivano "accerchiati" nel cuore dell'Impero Austro-Ungarico, ma la lingua inglese (insieme a tutte le altre con cui erano redatti i poster di Cody, compreso lo sloveno) era uno strumento di penetrazione irrinunciabile per l'apparato mediatico americano, molto avanti per quei tempi europei, e incline alla "vendita" di un prodotto senza guardare in faccia a nessuno.
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