Emma, la donna che vedeva nel buio

Oggi viene proiettato il nuovo film di Silvio Soldini “Il colore nascosto delle cose” con Valeria Golino
Rappresentare la cecità al cinema innesca immediatamente un paradosso sensoriale e semantico molto intrigante. “Guardare chi non vede”, e più ancora vedere ciò che il protagonista non può vedere, infatti, ci pone in quella che Alfred Hitchcock avrebbe considerato una condizione ideale per la sua suspense, stabilendo nel contempo un’alleanza strettissima tra il “guardante” e il “non vedente”. Se poi ad essere affetta da cecità è una donna si aggiunge un supplemento di presunta fragilità che si presta a sviluppi narrativi interessanti, dal thriller al melò.


A quest’ultima area appartiene Emma, interpretata da Valeria Golino in “Il colore nascosto delle cose” di Silvio Soldini, atteso oggi fuori concorso: un personaggio forte e determinato, una donna che ha reagito alla propria menomazione con forza inventandosi un lavoro, una vita, un percorso di relazioni, e il cui destino s’intreccia con quello di Teo (Adriano Giannini), pubblicitario in crisi e “workaholic”, in un rapporto sofferto che lascerà il segno su entrambi.


Ma la tipologia della “blind woman” al cinema ha una storia popolata da innumerevoli titoli, alcuni dei quali rilevanti per intensità drammaturgica o delicatezza di tocco. La memoria corre facilmente al capolavoro di Chaplin “Luci della città” (1931) e alla fioraia cieca interpretata da Virginia Cherrill, che solo dopo aver riacquistato la vista in un finale da brividi riconosce in Charlot il proprio ignoto benefattore. Il meccanismo di agnizione, di riconoscenza e riconoscimento insieme, scatta anche nel fiammeggiante melò di Douglas Sirk “Magnifica ossessione” (1954) in cui l’aspirante medico e arrogante playboy Rock Hudson s’innamora della vedova non vedente (Jane Wyman) di un uomo della cui morte egli è indirettamente responsabile, decidendo quindi di terminare gli studi solo per poterla operare e guarire.


Siamo forse all’apogeo del trattamento drammatico della materia: per ritrovare qualcosa di simile – ma in tutt’altro contesto narrativo – occorrerà aspettare il 2000 di “Dancer in the dark” di Lars von Trier: qui è l’ipovedente Selma (la popstar islandese Björk), che sogna unicamente i musical e la danza, ad affrontare eroicamente il patibolo per un delitto compiuto in stato di necessità, pur di non disonorare la memoria della sua stessa vittima. Con molta più evaporante lievità Pupi Avati in “Il cuore altrove” (2003) disegna un personaggio di ragazza cieca di buona famiglia (Vanessa Incontrada) della quale s’innamora un timido professore (Neri Marcorè), salvo che lei finirà con lo sposare il medico che la guarisce e lui, reincontrandola alla fine, sceglierà di non farsi riconoscere: quanto dire il rovesciamento del finale chapliniano, con un tocco consistente del melò di Sirk… Tuttavia è nel thriller che il character della non vedente si presta a situazioni di tensione insostenibili, proprio laddove al buio che le avvolge corrispondono anche il “noir” o il “dark” come generi. Da ricordare il magnifico “Neve rossa” (1951) di Nicholas Ray, con il “bad cop” Robert Ryan spedito sulle tracce di un assassino ad alta quota, dove incontra Ida Lupino, sorella cieca dell’inseguito.


Forse la più celebre rimane però l’indifesa Audrey Hepburn del sensazionale “Gli occhi della notte” (1967) di Terence Young, claustrofobica pièce teatrale in cui solo giocando d’astuzia la protagonista riuscirà a difendersi dal truce assassino Alan Arkin; ancora più spaventoso “Terrore cieco” (1971) di Richard Fleischer, con la povera Mia Farrow in balìa di un maniaco omicida, contenente sequenze da incubo fondate proprio sull’inconsapevolezza del personaggio rispetto agli orrori che invece vede lo spettatore. Vittime designate appaiono anche Uma Thurman in “Gli occhi del delitto” (1991) di Bruce Robinson, convinta dal poliziotto Andy Garcia a fare da esca per un serial killer di ragazze prive di vista, e Madeleine Stowe in “Occhi nelle tenebre” (1993) di Michael Apted, violinista sottoposta a trapianto di cornea e per questo nel mirino dell’ennesimo pazzo, mentre nell’horror “Terrore nel buio” (1974) di Michael Pataki un chirurgo oftalmico sequestra e acceca sconosciuti nel tentativo di ridare la vista alla figlia. Horror puro è anche la saga “The eye”, iniziata nel 2002 dagli hongkonghesi fratelli Pang, su una giovane cieca dall’infanzia eppure preda di orribili “visioni”.


Ma è lo spagnolo “Con gli occhi dell’assassino” (2010) di Guillermo Morales, prodotto da Guillermo Del Toro, a rappresentare un vero gioiello del filone per complessità di struttura e spietata lucidità registica, innervando la trama con la presenza di due gemelle (Belen Rueda) affette da cecità progressiva, una delle quali risoluta a indagare sul presunto suicidio dell’altra. Da citare infine “Hîchirimen bâkuto - nôbarydu takahadâ” (1970, Teruo Ishij), titolo di non facilissima memorizzazione, dove la giovane Meiko Kaji è una misteriosa vendicatrice armata di “katana”, quasi la versione femminile dell’infallibile spadaccino cieco di Takeshi Kitano in “Zatoichi” (2003).


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