Franco Giraldi: «I miei cowboy scanzonati come muli triestini»

Cinquant’anni fa usciva “7 pistole per i Mc Gregor” con musiche di Morricone che segnò la stagione degli spaghetti-western. Il mito si rinnova con Tarantino
Lasorte Trieste 28/11/11 - Salotto Azzurro, Sigillo Trecentesco al Regista Franco Giraldi
Lasorte Trieste 28/11/11 - Salotto Azzurro, Sigillo Trecentesco al Regista Franco Giraldi

C'era una volta il western, e c'è ancora. Il più classico dei generi cinematografici, dato mille volte per morto e sepolto, è infatti "redivivo" come Di Caprio nel successo "Revenant". Ma esce domani in Italia anche "The Heightful Eight" di Tarantino con le musiche (candidate all'Oscar) di Ennio Morricone, e nei prossimi mesi vedremo "Bone Tomahawk" con Kurt Russel, "Slow West" con Michael Fassbender e il remake de "I magnifici sette" di Antoine Fuqua. L'occasione è ottima per festeggiare anche il cinquantenario del primo western "triestino", lo scatenato "7 pistole per i Mac Gregor" del nostro Franco Giraldi. Musicato da Morricone, usciva nelle sale proprio nel febbraio di mezzo secolo fa incassando quasi un miliardo.

E, vale la pena ricordarlo, il 1966 fu anche l'anno del debutto negli "spaghetti western" di altri conterranei, dalla bionda Loredana Nusciak in "Django", allo zaratino Gianni Garko che fu Sartana per la prima volta in "1000 dollari sul nero", fino al regista pordenonese Damiano Damiani che inaugurò il western "terzomondista" con "Quien sabe?".

Giraldi, classe 1931, prima di diventare un cineasta "letterario" premiato a Taormina per "La rosa rossa" (1973, da Quarantotti Gambini), era stato molto apprezzato per i suoi scanzonati western all'italiana (quattro in tutto).

Un vero reuccio del B movie, protagonista del boom di questo filone che dilagava nel mondo con la sua rivoluzione estetica e i suoi primissimi piani dei faccioni nel sole di Almería. Abbiamo chiesto a Giraldi di rievocare quegli anni.

«Il merito del successo del western all'italiana è tutto di Sergio Leone - ricorda - È lui che ha fatto diventare di moda quei film da un giorno all'altro con 'Per un pugno di dollari'. Io ho avuto la fortuna di lavorare con Leone proprio sul quel set, senza avere la minima idea di partecipare a un'impresa epocale. Era il 1964 e lui mi chiamò in Spagna, in Almería, per aiutarlo con una seconda unità per alcune 'carneficine'. Sono stato coinvolto grazie al comune amico Sergio Corbucci, per cui avevo diretto scene d'azione in film mitologici. Così mi è stato facile scivolare nel western».

Come avvenne il suo esordio con "7 pistole per i Mac Gregor"?

«Subito dopo 'Per un pugno di dollari' Leone ruppe con la produzione, che era la Jolly Film di Papi, Colombo e Sabatello. Questi mi chiesero di dirigere un film per loro, perché il mio lavoro con la seconda troupe era piaciuto molto. Chiacchierando con un gruppo di amici, gli sceneggiatori Duccio Tessari (quello dei primi 'Ringo' con Giuliano Gemma), Fernando Di Leo ed Enzo Dell'Aquila, ci venne l'idea di fare un western più ironico, corale, avendo un po' per modello 'Sette spose per sette fratelli'. Io chiesi solamente di poter girare non a Roma ma in Spagna, nei paesaggi ariosi, autentici di 'Per un pugno di dollari'. La storia era quella di sette fratelli cow-boy, scozzesi e spacconi, che devono recuperare la loro mandria di cavalli rubata da una banda di messicani. Fu un divertimento, ma anche una fatica. A parte due figure di primo piano, il protagonista Robert Woods al suo primo film italiano e il caratterista spagnolo Fernando Sancho, gli altri erano attori non professionisti, però con facce plausibili e bravissimi come acrobati e cascatori. C'erano molte scene spettacolari, scazzottate, cadute da cavallo, un attacco al treno dove Sancho quasi rischiò la vita, un assedio al ranch dei Mac Gregor respinto da un vecchio cannone. Insomma ce la misi tutta, anche se il successo fu comunque una sorpresa».

Il film ha una trama ricca di colpi di scena e di doppiogiochismi. Sembra di riconoscere la mano di Fernando Di Leo e delle sue sceneggiature per Leone.

«Di Leo era un geniaccio, istrionico, molto ambizioso, anche eccessivamente. Era presuntuoso, uno capace di dire ai produttori: “Volete che scriva un film che incassi un miliardo?”. In lui e in Leone albergava quello spirito romano, trasteverino, che li spingeva allo sberleffo e alla beffa. Alla figura un po' ingessata dell'eroe del western classico, Leone e Di Leo sovrapposero la birbanteria del bullo romano. E la cosa ha funzionato».

"7 pistole" è il primo western all'italiana ironico, siamo già dalle parti di Trinità ed è ancora oggi molto divertente.

«Forse perché mi sono divertito molto a dirigerlo. Ho fatto i western con allegria e piacere. Mi davano la scusa per cercare delle location spettacolari e curiose. Non era una forzatura per me farli, in quel momento li giravo più che volentieri e li ho realizzati meglio che ho potuto. Ma non davo loro un'importanza seriosa, perché non erano in cima alle mie ambizioni. Il mio primo film più meditato è stato 'La bambolona' (1968) con Ugo Tognazzi».

Intanto ha fatto altri western come "Sugar Colt" con Soledad Miranda, attrice di culto per gli horror di Jesús Franco.

«Dopo il successo dei Mac Gregor, la Jolly mi chiese perentoriamente di fare il seguito previsto dal contratto, '7 donne per i Mac Gregor'. Ma nel frattempo mi ero già impegnato per 'Sugar Colt', una storia di vendetta ambientata alla fine della guerra civile. Un altro film ironico, che considero però più personale, più bizzarro. Volevo un protagonista dandy, diverso dagli attori western in circolazione un po' rozzi, e scelsi un fior di attore che veniva dalla tv, l'americano Hunt Powers. Anche la Miranda è stata una scelta molto precisa per il suo viso intenso, quasi spirituale ma pieno di carattere».

Tullio Kezich scrisse che "Sugar Colt" era un "piccolo capolavoro" e che i Mac Gregor gli sembravano "muli" triestini, "pieni de morbin". Ne parlavate insieme?

«Anche se eravamo amici, Tullio guardava quei miei lavori col dovuto distacco. Però li prendeva sul serio, li valutava con attenzione e con rispetto».

Negli "spaghetti western" troviamo diversi giuliani: Garko, la Nusciak, poi Nino Benvenuti. Kezich era un esperto. Che nesso c'è stato tra la nostra "frontiera" e quella del western?

«C'è stata forse un'attrazione indiretta, un incontro casuale, anche se fortunato. Naturalmente i temi della frontiera mi affascinavano in chiave più seria».

Come fu il rapporto con Ennio Morricone, che scrisse "La marcia dei Mc Gregor"?

«Amo molto la musica, e il dialogo con un vero musicista fu per me affascinante. Credo che una delle ragioni del successo sia stata proprio la musica. Anche se l'idea di far suonare un notturno di Chopin al pianista del saloon, durante una colossale rissa, fu mia».

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