Ghini: «Sì, mi ha voluto Strehler»

Quanti, in un mondo frenetico come il nostro, desiderano un momento di pace? Anche Michel Leproux, protagonista della commedia “Un'ora di tranquillità”, sembra avere questo problema: dopo aver acquistato un vinile di musica jazz, non riesce mai ad ascoltarlo.
La pièce di Florian Zeller, diretta ed interpretata da Fabrice Luchini, da Parigi giunge in Italia, grazie all'ingegno di Massimo Ghini, che si cala sia nel ruolo di regista che in quello di attore protagonista. Lo spettacolo è ospite della Stagione Prosa del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, dall'8 al 12 febbraio (alle 20.30, domenica 12 alle 16).
Massimo Ghini, è vero che lei da piccolo voleva fare il direttore d’orchestra?
«Quand'ero bambino, l'idea di fare l'attore c'era, ma non avevo gli strumenti per poter giudicare se questo era un mestiere buono o cattivo. Volevo fare il direttore d'orchestra perché è sempre stato un mestiere artistico, ma rispettato. Non si è mai pensato ad un direttore come a qualcuno che rappresenti la follia, al contrario dell'attore.»
E la famiglia?
«Vengo da una famiglia di melomani, non a caso mia madre si chiama Tosca, mio padre è di Parma e gli zii sono toscani. A casa spesso c'erano discussioni su un do di petto oppure sul passaggio di un soprano o di un tenore. Il mio rapporto con l'opera lirica è nato allora; certe cose che da bambino non capivo, si sono rivelate poi un bene prezioso che mi è stato tramandato».
In “Un'ora di tranquillità”, il protagonista compra un vinile di jazz. Lei, che legame ha con il jazz?
«Ho un legame non da appassionato totale: ascolto anche altra musica. Ci sono alcuni musicisti però che mi piacciono molto, come John Coltrane e Woody Herman. Io provengo da un paese dove, quand'ero piccolo, non c'era la possibilità di sentire ognuno la propria musica; il jazz l'ho sentito attraverso la radio, ma soprattutto attraverso il cinema. È stato il cinema che ha fatto crescere in me una particolare sensibilità nei confronti del jazz».
E con Lelio Luttazzi?
«Con Luttazzi il rapporto è di tutt’altra natura, anche se è legato al jazz. Alcuni anni fa sono venuto a Trieste per il film tv “Gli ultimi del paradiso”. Lelio e la moglie Rossana hanno invitato me e il cast a cena, nel loro meraviglioso appartamento in Piazza Unità. Noi fremevamo per sentire suonare il Maestro; lui, fingendo meravigliosamente un minimo di ritrosia, è poi partito e ci ha fatto un concerto al pianoforte di un'ora e mezza. La nostra espressione era come quella dei bambini davanti al luna park. Quella sera ce l'ho ancora impressa nella mente».
A Milano ha incontrato un altro triestino: Giorgio Strehler...
«Venni bocciato all'Accademia di Roma e ci rimasi malissimo. Partii così per Milano, per fare un provino, e il triestino Strehler di Barcola mi prese».
E lui com’era?
«La grandezza del personaggio è indiscutibile: ancora oggi si può vedere una sua commedia e trovarla moderna. Il più grande insegnamento che ho avuto da Strehler è stato durante una prova: avevo 21 anni e facevo dei piccoli ruoli in uno spettacolo. Ad un certo punto, Strehler ha bloccato Tino Carraro per chiedergli: “Secondo te, questo passaggio il pubblico lo capisce?”. Il fatto che si sia interessato del pubblico, anche se orami lo spettacolo lo facevano da cinque anni, mi ha molto colpito».
In “Un'ora di tranquillità” oltre ad essere attore è anche regista. Come ha impostato la commedia?
«L'ho impostata così: ho preso il testo, l'ho letto e ho trovato l'autore, Florian Zeller, straordinario. Agli attori ho detto: “Il mio teatro è questo: aprite pagina uno e cominciate a leggere”. Ho voluto fare un omaggio a Blake Edwards: ad un cinema, ad una comicità che, quando ero ragazzo, trovavo molto intelligente. Infatti, nella commedia, ad un certo punto, c'è una citazione legata all'ispettore Clouseau».
Nella commedia non c'è musica...
«Il gioco sta tutto nei suoni, nei rumori, nell'esasperazione del mondo moderno: un uomo esce di casa, compra un disco jazz, torna a casa e chiede alla moglie se può ascoltarlo in tranquillità. Da quel momento avvengono dei fatti che gli cambieranno la vita. Al centro del delirio si trova quest'uomo che non è vittima: è l'egoista che ha costruito tutto ciò che lo circonda. L'autore Zeller ha voluto mantenere, per questa commedia, uno scheletro da pochade. Alla fine si ride, ma si ride di noi stessi. Tutto si concentra sulla frenesia umana e su come siamo ridotti».
Non abbiamo mai “Un’ora di tranquillità”, però, se ci sono delle persone che vanno a teatro, forse un'ora di tranquillità la si può trovare...
«Per quanto mi riguarda, la mia ora di tranquillità è quando sto a teatro, almeno so il copione, so come finisce...».
Cosa racchiude la commedia?
«Ci sono tutte le varie situazioni della vita; c'è un idraulico polacco che poi si rivela portoghese; c'è un figlio punkabbestia che si fa chiamare Fucking rat. Non sono storie inventate dall'autore: sono realtà ambientate a Parigi, ma che possono succedere ovunque. In questa commedia c’è un razzismo denunciato, ma pazzesco. In Italia, nessuno ha il coraggio di scrivere testi divertenti e con un grande significato».
Quindi, secondo lei, cosa manca al teatro?
«Bisogna uscire dall’ipocrisia, ciò vale anche per il cinema e per la tivù. Il problema è che si vive in una sorta di dittatura culturale; credo che la grande potenzialità artistica, che esiste anche nel nostro Paese, non sia espressa al massimo. Gli autori vengono messi nella condizione di avere una sorta di autocensura intellettuale fin dall’inizio. Non abbiamo il coraggio di raccontarci per quello che siamo. Basterebbe un po' di buona volontà».
Bisogna osare e avere coraggio...
«Un minimo».
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