Gli etnologi “ferventi” di Guolo pionieri di una nuova scienza

Mary B. Tolusso



«Cos’è la sociologia? Cos’è l’etnologia? Innanzitutto la rimessa in questione, da cima a fondo, di colui che vi si consacra», se lo chiedeva Germaine Tillion, etnologa francese formata tra l’altro sotto il magistero di Marcell Mauss. Una domanda che spunta alla fine dell’energico saggio di Renzo Guolo, “I ferventi. Gli etnologi francesi tra esperienza interiore e storia” (Mondadori, pagg. 352, euro 27). “Ferventi” è termine appropriato per descrivere gli ideatori di una disciplina che ha fatto le sue fatiche per imporsi, da sempre considerata sorella minore della sociologia.

Il volume di Guolo ha diverse virtù a iniziare dalla scrittura: una forma narrativa chiara, pulitissima, tanto da farci dimenticare spesso che quello che stiamo leggendo è un saggio, inserendolo piuttosto in un genere creativo, come fosse un lungo racconto d’avventura. E poi nessun dato, notizia o spiegazione è sterile. Perché appunto al centro del volume, oltre alla nascita e al declino dell’etnologia francese, oltre alle connessioni storiche, oltre a documentazioni sintetizzate con una chiarezza invidiabile, Guolo ci restituisce proprio l’esperienza interiore di questi pionieri. Esperienza che non può non incidere – come osservava Tillion – nella pratica di una materia che ha a che fare direttamente con l’umano.

Tanto più per una disciplina che si sta formando all’inizio del ‘900, nel periodo coloniale e nell’ascesa dei regimi dittatoriali europei. Così l’autore, al di là della nascita dell’Etnologia e delle principali istituzioni che vi hanno contribuito (dall’Istituto di Etnologia animato da Marcell Mauss al Museo di Etnografia di Paul Rivet), assume la prospettiva biografica dei suoi protagonisti, non per raccontarci “fatti privati” che poco c’entrerebbero con l’evoluzione di una scienza, ma non si può negare che tale scienza – l’etnologia – abbia influito sull’evoluzione dei suoi “ferventi”.

Tutti partono da una tesi precisa: staccarsi da certo idealismo di matrice durkeimiana perché, come scrive Mauss: «la sociologia deve abbandonare il terreno delle idee per quello dei fatti». O ancora meglio: «i sociologi spiegano, gli etnografi fanno ricerca». Ricerche sul campo o come si dice in gergo: “sul terreno”. Guolo ci mette a conoscenza delle principali missioni, praticate per lo più sulle colonie francesi e italiane, dall’Algeria all’Etiopia alla Nigeria. Spesso si evidenzia il diverso approccio di genere, tra maschi e femmine, tra chi come Marcel Griaule adotta anche metodi poco ortodossi e chi, per entrare in contatto con le popolazioni indigene, persegue relazioni più armoniose come le etnografe Deborah Lifchitz, Denis Paulme, Thérèse Rivière e Germaine Tillion. Tutte guardate con sospetto – donne autonome lontane da casa – costrette a essere più rigorose degli uomini per non subire reazioni maschiliste. Donne dalle vite avventurose e tragiche, come Rivière la cui esperienza africana la segnerà radicalmente. O Tillion, a capo del gruppo di Resistenza del Museo dell’Uomo, arrestata e deportata a Ravensbruck nel 1943. Si occuperà poi di crimini di massa, partecipando attivamente a diverse lotte politiche e realizzando moltissime missioni tra Africa del Nord e Medio Oriente. Tutte loro, inclusi altri etnografi coloniali, subiranno un profondo cambiamento etico ed estetico con il secondo conflitto mondiale, ripensando i metodi, rielaborando l’etnologia, qualcuno abbandonandola per la politica. In ogni caso siamo di fronte a un lungo racconto avvincente, molto simile alle esistenze di quei poeti per cui arte e vita sono una cosa sola.

Non a caso Lévi-Strauss ci restituisce la complessità del profilo dell’etnografo, sottoposto costantemente a una sorta di disancoramento cronico: «mai più si sentirà a casa sua in nessun posto, rimarrà psicologicamente mutilato». —



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