I cosacchi scoprono biciclette e vino aVerzegnis nell’illusione di una terra

Trr trr... La bicicletta, sconosciuto oggetto di desiderio, prima di capitombolare su una siepe o schiantarsi contro un muro, provavano a fermarla gridando il verso usato con i loro cavalli. Tracotanti e infantili, crudeli e caritatevoli, imperiosi e malleabili. Non è difficile credere che gli abitanti della Carnia avrebbero preferito fantasticare su queste caratteristiche così antitetiche e spiazzanti leggendo un bel romanzo russo, piuttosto che doverci convivere a forza. Eppure accadde. Fu quando 40 mila cosacchi, dall’ottobre del 1944 all’aprile del 1945 vennero reclutati dai nazisti per le operazioni di rastrellamento contro il movimento partigiano della Brigata Garibaldi e della Osoppo, molto attive nella regione e si stabilirono in vari paesi del Basso e Alto Friuli. Anche a Verzegnis, epicentro di una storia formato mignon che però concentra in sé sofferenze universali, la cronaca della liberazione degli uni pagato con l’annientamento degli altri, accomunati dalla sventura di essere vittime di decisioni imperscrutabili.
Tutto ciò è ripercorso, con vivida partecipazione in “Stanitsa Tèrskaja. L’illusione cosacca di una terra” (Gaspari editore, pagg. 114 euro 14) da Patrizia Deotto, radici piantate a Verzegnis ma anche nella cultura russa di cui è docente all’università di Trieste. Il volume sarà in libreria da venerdì.
Fonti italiane, russe, foto d’epoca e testimonianze orali raccontano l’impatto sui morigerati montanari delle intemperanze dei cosacchi che spadroneggiano e si installano nelle stanze migliori delle case; razziano tutto e sono schiavi di Bacco il cui profumo li resuscita dal sonno più profondo, ma anche del tabacco che rubano già essiccato dai poggioli delle case.
Però ciò a insediamento già avvenuto, con tanto di famiglie al seguito, masserizie, cavalli e cammelli che prosciugano abbeveratoi e sputano ovunque.
Un’armata brancaleone del Don, rude, allo sbando, dall’orgoglio ferito che Hitler ha reclutato contro i “banditen” del Friuli Venezia Giulia di estrema rilevanza strategica, seconda linea di rifornimento e di sgombero con il mondo germanico attraverso la linea ferroviaria Villach-Udine.
Di etnia spuria, tataro-ucraina-altro, alcuni si erano stabiliti a Berlino nel 1920 al termine della guerra civile sovietica e avevano sviluppato forti orientamenti filonazisti, ovvero antibolscevichi. L’alto comando tedesco aveva promesso loro, in cambio della collaborazione, il ripristino della proprietà privata della terra, libertà d’insegnamento e religione, amministrazione autonoma.
Illusione sfumata con la controffensiva sovietica di Stalingrado del 42 che costrinse i fiancheggiatori dell’esercito tedesco a piegare verso occidente per appropriarsi di quella che battezzano nostalgicamente Stanitsa Terskaja, villaggio di Terek, nome della loro terra. Però la terra in cui si insediano appartiene già ad altri. Non solo: è il cuore della Resistenza locale, grazie all’intraprendenza di un “parroco rosso”. Don Graziano Boria incita gli uomini dal pulpito a prendere le armi e la popolazione a coprirli: “Mangeremo una sola patata a testa, ma nessuno dei nostri dovrà presentarsi al comando tedesco”.
È il 1944, le sorti della guerra sono già segnate - tra rastrellamenti dei nazisti e dei repubblichini di Salò e il suono delle campane a distesa nella vallata a cui segue il fuggi fuggi generale nei boschi. Non trovano gli uomini, allora svuotano le dispense, rubano biciclette e fiammiferi. Stremiscono le donne che presto sarebbero arrivate le “bestie”, truppe di cosacchi, caucasici e mongoli, usati come grimaldello nelle operazioni più violente per piegare la popolazione.
Verzegnis, al confronto di altre frazioni del circondario, si rivelerà quasi un’oasi protetta dato che assieme alla soldataglia è invasa anche da civili, medici, artisti e molte famiglie animate dall’unica aspirazione di ricominciare a vivere da cristiani, seppure ortodossi. Fino a condividere anche la chiesa.
Con tanto d’occhi i paesani interpellano un chierichetto di 5 anni: “Don Graziano porta via il suo Signore e il prete russo entra con il suo”. Molte cose destano meraviglia: i paramenti suntuosi, i canti corali, le mille candele, gli ufficiali in alta uniforme, e tutto sembra uscire da racconti di terre lontane, anche il pomposo arrivo in carrozza del generale Pjotr Krasnov, atamano del Grande Esercito del Don, nel febbraio del 45, che si sistema nella Locanda Stella d’oro. Soffuso di mistero, le fanciulle hanno di che parlare e lo promuovono a principe. La sartina di paese confezionerà da una tenda persino il vestito per le nozze della nipote, celebrate nella chiesa di Chiaulis. Taglia e cuce relazioni come sempre il diplomatico Don Graziano che gli sottopone un promemoria volto a migliorare i rapporti tra cosacchi e autoctoni. I bambini non ne hanno bisogno, si picchiano e s’intendono tra di loro attraverso uno strano bric-à-brac russo-friulano.
La complicata convivenza avrà un tragico epilogo con lo scampanio, stavolta festoso, che annuncia l’arrivo degli anglo-americani. Il generale Krasnov, di vecchio stampo, contava sull’onore di una remota alleanza con gli inglesi per salvare la sua gente che invece sarà caricata a forza su camion e carri bestiame e consegnata ai sovietici. Finì nei Gulag, alcuni riuscirono a suicidarsi, il generale Krasnov fu giustiziato.
Solo pochi giorni prima una donna, però rivolgendosi a un cosacco, lo aveva apostrofato: “Mostros, vejso finit?”. —
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