I critici Ugo Casiraghi e Glauco Viazzi furono loro a inventare il “cinema classico”

la recensione
È stato contraddittorio, di sicuro intimamente drammatico, ma anche emblematico di molta cultura italiana tra gli anni ’30 e il dopoguerra, il destino intellettuale, politico e privato di due fra i più importanti critici cinematografici italiani, il milanese Ugo Casiraghi (classe 1921) e Glauco Viazzi, cresciuto a Trieste nel 1920, milanese di adozione e armeno di origine (vero nome Jusik Achrafian).
Entrambi precoci e brillanti cinefili, grandi amici e vicini di casa a Milano, esordiscono neanche ventenni alla fine degli anni ’30 prima sulle testate fasciste lombarde sotto l’egida dei Guf, e poi su quelle romane all’ombra del Minculpop (“Cinema” diretta dal figlio del Duce, Vittorio Mussolini, e “Bianco e nero” del neonato Centro sperimentale). Nel dopoguerra, come molti intellettuali e cineasti coetanei, Casiraghi e Viazzi si iscrivono subito al Partito comunista italiano. Entrano il primo all’”Unità” e il secondo nella rivista gramsciana “Cinema nuovo”, esercitando una critica sempre acuta ma anche ideologica, con una certa benevolenza ad esempio per le pellicole dell’Urss. Ma dopo i fatti d’Ungheria del 1956, questa indulgenza verso la ragione propagandistica zdanoviana, nonché il passato prebellico, saranno loro frettolosamente rinfacciati da parte di quella critica di sinistra che voleva sbarazzarsi del “realismo socialista”.
Le polemiche ebbero un effetto più traumatico e rapido su Viazzi, che dal 1958 cesserà di occuparsi di cinema. Casiraghi invece, quale primo recensore dell’”Unità” fu toccato di meno, ma un certo boicottaggio la subì comunque. “Quello di cui Ugo parlava poco era il Partito comunista” – ricorda Paolo Mereghetti – “Non aveva mai pensato di mettere in discussione la sua appartenenza di campo, ma l’ostracismo che aveva subito quando era iniziata la sua storia con Licia (perché ancora sposata, il moralismo del Pci allora rivaleggiava con quello della Chiesa) doveva aver lasciato un segno profondo”.
Questo ricordo è contenuto nella prefazione di un importante volume fresco di stampa, “Il cervello di Carné. Letterario 1941 – 1943”, imponente lavoro a cura di Simone Dotto e Andrea Mariani (La nave di Teseo, (pagg 536, euro 25) che viene presentato al 40° Premio Amidei (23 – 29 luglio), il 27 luglio al Kinemax di Gorizia, con gli autori a colloquio con Paolo Mereghetti e Francesco Ranieri. Il libro pubblica l’inedito, primo carteggio fra Casiraghi e Viazzi negli ultimi anni del fascismo, quando i due giovani amici si trovavano l’uno a Milano (Viazzi) e l’altro arruolato in guerra (Casiraghi). Tra vicende personali a casa o al fronte, il carteggio illustra la formazione intellettuale dei due critici in tempi così difficili e insieme trascinanti. Per quanto milanesi di formazione, Casiraghi e Viazzi ebbero parecchio a che fare col nostro territorio, ed è anche questa la ragione per cui è stata Gorizia a promuovere la ricerca.
Casiraghi visse nel capoluogo isontino i suoi ultimi vent’anni avendo seguito Licia, l’amore goriziano, e a lui è stata dedicata la Mediateca della città, dal cui archivio proviene la selezione di cento lettere al centro del volume. Viazzi visse nell’adolescenza a Trieste, dove si rifugiò in un primo tempo la famiglia profuga dall’Armenia. Praticamente coetanei di Callisto Cosulich e Tino Ranieri (e un po’ più anziani di Kezich), Casiraghi e Viazzi condividevano coi colleghi triestini (che avrebbero conosciuto a Venezia solo nel dopoguerra) la stessa passione cinefila e la formazione eclettica.
Non a caso, i curatori de “Il cervello di Carné” ricordano come Casiraghi si riferisse ai “settentrionali” per distinguere la sensibilità dei giovani critici del Nord da quelli romani, in anni fascisti in cui il cinema era in fase di “istituzionalizzazione” avanzata, e dove anche l’attività culturale studentesca era soggetta al controllo e all’omogeneizzazione del Governo.
E infatti gli interessi che emergono dal carteggio dei “settentrionali” Casiraghi e Viazzi sono liberi e internazionali, e spaziano ad esempio dalla letteratura americana (Poe, Saroyan) alla britannica (Cronin, Ruskin), a quella francese (Bernanons). I due poi discutevano molto di estetica per dar corpo e profondità alle loro analisi critiche. Ricordavano Croce, certo, ma soprattutto il francese Paul Valéry sui concetti di “classico” e di “costruzione” del testo. Quest’ultimo tema, osservano i curatori, rappresentava uno degli assi della teoria del film, ma implicava anche un duro esercizio “costruttivo” nella loro pratica espressiva, per due saggisti che si sono sempre distinti per grande qualità nella scrittura.
Il concetto di “classico”, invece, serviva loro per creare un canone di autori e filoni che avrebbe dovuto concretizzarsi in un libro intitolato “12 testi”, ovvero profili di film e registi chiave, che i due individuano ad esempio in “Vampyr” di Dreyer, “Alba tragica” di Carné, “Il traditore” di Ford, ma anche nel proto-neorealista “Uomini sul fondo” di De Robertis.
Il gusto sicuro di queste scelte attesta quanto la loro disperata passione cinefila rappresentasse il miglior antidoto contro il clima bellico. Come osservano i curatori del volume, le lettere di Casiraghi e Viazzi, quando i due erano ancora lontani da scelte di campo ideologiche, “testimoniano una fame di cinema che va oltre i limiti materiali tragicamente imposti dalla guerra”. —
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